Dopo la formidabile full immersion nel bizzarro cinema di genere Australiano anni ’70 ed ’80 (Not quite Hollywood), Hartley ci riprova riportando alla luce – sempre attraverso la forma documentario che gli è più nelle corde – il cinema di genere Filippino, ben conosciuto ai frequentatori degli scomparsi drive-in statunitensi e tuttora ricordato per i suoi eccessi grotteschi.
“Dai primi anni ’70 fino agli anni ’90 le Filippine sono state il rifugio per uno stuolo di registi rinnegati e visionari. Il Paese è offriva manodopera a costi ridotti, località esotiche e totale mancanza di regole e restrizioni professionali. Una travolgente marea di produzioni a basso costo segneranno così la storia del cinema Filippino, riflesso dell’energia espressiva della contemporanea cultura Filippina. Queste produzioni (soprattutto film di mostri, WIP ed ibridazioni fra blaxploitation ed action-kung fu) sono state miracolosamente girate in un momento di forte repressione politica. Ma questa è stata una pazza rivoluzione artistica che anche il dittatore di Marcos non ha potuto debellare!”
Come chiariranno fin da subito John Landis e Joe Dante, due tra le più grandi rivelazioni della factory Corman (anch’egli intervistato), il cinema di genere Filippino e le successive coproduzioni con finanziamenti americani rispondevano deliberatamente alla “regola delle 3 B”: Blood, Breasts e Beasts. Formula perfetta per sintetizzare la miriade di titoli che caratterizzò il filone, da The big doll house di Jack Hill, passando per La bestia di sangue di Eddie Romero, T.N.T. Jackson del grande Cirio H. Santiago fino all’assurdo For Y’ur Height Only di Eddie Nicart, solo per menzionarne alcuni.
Un viaggio incredibile che non risparmia momenti di profonda analisi, ad esempio in merito alla totale assenza sicurezze minime durante le scene d’azione (quasi sempre accompagnate da esplosioni e/o cadute di stunt da altezze improbabili). Così come non è tralasciato il noto suicidio artistico di Francis Ford Coppola durante la lavorazione di Apocalypse Now, avvenuta proprio nelle Filippine durante la “stagione delle piogge”, quando un violento tifone distrusse completamente il set e l’esercito del dittatore Marcos – coinvolto direttamente nelle riprese – diede più di una grana al regista.
Un periodo storico, sociale e creativo che tutte le star coinvolte nel documentario definiscono, a ragione, irripetibile. Principalmente per l’approccio anarchico e scorretto alle vicende narrate, sempre eccessivo e platealmente maschilista, libero dai vincoli perbenisti e moderati delle produzioni americani coeve. In seconda istanza per ragioni di carattere produttivo, in quanto erano le storie (talvolta la sola idea di base) a rendere il titolo appetibile ed originale, nonostante i budget risicati ed i limiti evidenti del cast artistico. Se si perdona il risultato fruibile al quale gli 84 minuti di montato finale devono necessariamente rispondere, Machete maidens unleashed! rapprensenta un ulteriore tassello a quel filologico, religioso recupero che Hartley sembra ormai aver sposato nella propria poetica filmica. Complimenti.
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