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Made in Italy - I pomodori di Nardò

Creato il 04 dicembre 2011 da Alesan
Made in Italy - I pomodori di NardòSi chiama Yvan Jean Pierre Sagnet, è studente al Politecnico di Torino. Uno studente, a mio modo di vedere un cittadino italiano che ha la pelle del colore sbagliato. L'estate scorsa scende in Puglia per la raccolta dei pomodori così da avere un po' di spiccioli per mantenersi gli studi. Trova da lavorare, che fortuna. Un lavoro dovrebbe essere emancipazione, libertà di avere due soldi da spendere senza elemosinare o rapinare. Jean Pierre è uno di quei migranti che magari vorrebbero diventare italiani, un giorno o l'altro, e per cominciare si comportano bene. Studia e lavora, onestamente. Il lavoro che gli viene offerto dagli italiani funziona così: si raccolgono pomodori e si riempiono dei cassoni, per ogni cassone il lavoratore si mette in tasca 3 euro e cinquanta. L'azienda, per ogni cassone, ne intasca tra i 10 e i 15, ma non è tanto questo il punto. Il punto è che di cassoni se ne fanno al massimo 7 al giorno, in giornate lavorative che vanno dalle 3 del mattino alle 7 di sera. Non ci sono protezioni per il sole, guanti alle mani, pause e riposi. Se ti ammali non c'è la mutua, se ti fai male non c'è speranza. Da casa puoi portarti da bere ma è vietato portare cibo, per quello c'è la mensa aziendale che offre un panino a 3 euro e cinquanta, così un cassone rientra praticamente gratis per l'azienda che ti assume e di cui tu non sai nulla. Nemmeno il nome.
La sera si può rientrare a casa ma Jean Pierre non ha un letto: è arrivato tra gli ultimi, in quel capannone in cui trovano rifugio tra le 200 e le 300 persone, per cui non c'è un materasso per lui. Deve dormire in terra e aspettare il mattino seguente, quando il caporale ripasserà e deciderà chi deve andare al lavoro. Il caporale è anche il tizio che si tiene in tasca i documenti dei lavoratori immigrati, così nessuno può scappare senza averli recuperati e lui li può anche riutilizzare per far lavorare in qualche campo più "legale" altri lavoratori che documenti non ne hanno. Jean Pierre ha un lavoro, ma non è un lavoratore. Si alza ogni mattina per fare il proprio dovere ma non ha diritti. Ha un posto in cui dormire, ma non ha una casa. Ha documenti di identità, ma non è un cittadino. E' uno schiavo, uno schiavo moderno nell'Italia di oggi. E un bel giorno decide di dire basta, senza la paura che attanaglia ognuno di noi, ogni giorno, schiavi della crisi e della paura. Si organizza coi propri compagni, cerca un delegato per ogni lingua parlata affinché chi sa un po' di italiano possa rappresentare chi parla inglese, chi arabo, chi francese. Poi, comincia lo sciopero. Il sindacato Flai-Cgil lo aiuta e comincia una vertenza.
Un giorno, uno dei padroni delle aziende che utilizzano il caporalato per qui campi di pomodoro lo avvicina e gli dice andare avanti non ha senso. "Se dovessimo regolarizzare il lavoro assumeremmo solo italiani dopo". E' il solito ricatto no? O così o farò lavorare altri. Lavorerò altrove, non farò investimenti. Quanto c'è di diverso in questa minaccia e in quella di ogni altro imprenditore che pone sotto scacco i propri lavoratori ogni giorno? Jean Pierre, però, lo guarda e gli dice che "non importa. Importa che ogni lavoratore abbia i propri diritti, la propria dignità". Jean Paul andrà in fondo e continuerà a scioperare coi propri compagni mentre il caso di Nardò, Lecce, assumerà proporzioni importanti. Il Governo, poche settimane dopo, approverà una legge che rende reato penale il caporalato. Nel 2011. Per la protesta di lavoratori stranieri. Grazie a Jean Pierre. Manca ancora un pezzo: dire che criminale è anche quell'imprenditore che utilizza il caporalato. Aspetteremo un altro Jean Pierre, oppure ci sveglieremo noi. Tutti insieme.
Una delle rare interviste a Jean Pierre la trovate qui, mentre io, ieri, ho potuto ascoltarlo dal vivo. E capire una volta in più che una speranza c'è ancora.

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