La Corte europea dei diritti umani (Cedu) di Strasburgo ha condannato l’Italia per i respingimenti verso la Libia. Era il 6 maggio del 2009, e alle motovedette italiane venne dato per la prima volta l’ordine di invertire la rotta. E di riportare in Libia i naufraghi che avevano intercettato in mare 35 miglia a sud di Lampedusa. Sul molo di Tripoli li aspettava la polizia libica, con i camion container pronti a caricarli, come carri bestiame, per poi smistarli nelle varie prigioni del paese. A bordo di quelle motovedette c’era un fotogiornalista, Enrico Dagnino, che ha raccontato la violenza di quell’operazione. Poi fu censura. In Libia vennero respinte altre mille persone in un anno. Ma nessuno vide. E nessuno si indignò. Fortuna che a Roma uno studio di avvocati non ha mai smesso di crederci, e tramite alcuni buoni contatti in Libia, è riuscito a raccogliere le procure di 24 di quei respinti, undici eritrei e tredici somali. Sono stati loro a denunciare il governo italiano di fronte alla Corte europea. Per essere stati espulsi collettivamente e senza identificazione, per non aver avuto il diritto a un ricorso effettivo davanti a un tribunale, e per essere stati respinti in un paese terzo, la Libia di Gheddafi, dove sono stati incarcerati in condizioni inumane e degradanti e in alcuni casi sottoposti a torture.
Le storie dei 24 ricorrenti le avevamo già raccontate due anni fa. Ma nel frattempo in Libia c’è stata una guerra e oggi c’è da chiedersi dove si trovino loro e gli altri mille respinti. La stessa domanda che si sono fatti Andrea Segre e Stefano Liberti, autori del nuovo documentario “Mare chiuso“, che sarà presto distribuito in tutta Italia con la sperimentata diffusione dal basso che in passato ha permesso di far circolare il film “Come un uomo sulla terra“. In “Mare chiuso”, sono andati a cercare i respinti di un altro respingimento, quello effettuato dalla Marina militare il 30 agosto 2009. E hanno scoperto che alcuni di loro sono nei campi profughi di Shousha, al confine tra Tunisia e Libia. Altri sono arrivati in Italia con gli sbarchi di metà 2011, mentre a Tripoli c’era la guerra. Altri ancora sono morti annegati, nei tanti, troppi naufragi che sono accaduti quest’anno in frontiera.
L’Italia non è l’unico Stato ad avere effettuato respingimenti. La Grecia respinge in Turchia, la Spagna respinge in Marocco e in Mauritania. Eppure l’Italia è l’unico paese ad aver collezionato una condanna così forte. Sarebbe banale dire che è la giusta condanna alle politiche xenofobe dei Berlusconi e dei Maroni. Sia perché l’accordo sui respingimenti porta la firma del governo Prodi e dell’allora ministro dell’interno Amato. Sia perché fino alla fine del 2010 la Commissione europea e Frontex stavano lavorando a un accordo quadro con Gheddafi proprio sul tema dell’immigrazione. Tutto questo in realtà dà un peso politico ancora maggiore alla sentenza della Cedu, che di fatto boccerebbe tutte le politiche europee di controllo delle frontiere. Se non fosse che…
Se non fosse che nel frattempo Gheddafi è stato ucciso e il suo regime sostituito da un governo transitorio tutt’altro che ostile verso le Nazioni Unite e le convenzioni internazionali. La Libia di oggi non è la Libia di ieri. Certo ci sono ancora episodi di torture in carcere e di morti sospette. Ma a differenza di prima iniziano a diventare l’eccezione anziché la regola. Tutta la società lavora per la costruzione di un paese fondato su uno Stato di diritto. E lo svolgimento delle elezioni amministrative a Misrata la settimana scorsa sono un buon esempio in questa direzione, come pure la formazione di decine di partiti politici, centinaia di testate giornalistiche e di associazioni culturali e sociali. In questo quadro di rinnovamento, c’è da aspettarsi che cambierà anche l’approccio al tema immigrazione.
Sono stato un mese fa a Tripoli e a Kufra ed ho avuto modo di verificare di persona come per la prima volta in Libia le Nazioni Unite hanno accesso regolare nelle prigioni, e come per la prima volta in Libia si stia distinguendo tra richiedenti asilo politico e non. A Tripoli un’associazione caritatevole libica gestisce un centro di accoglienza ricavato nelle casette abbandonate degli operai del cantiere della stazione del treno di Tripoli, bloccato da quando è iniziata la guerra. Ci vivono circa 700 somali, sono tutti entrati dal deserto di Kufra negli ultimi mesi, senza documenti, e da Kufra sono stati rilasciati in quanto ritenuti rifugiati politici. Così con una sorta di attestato rilasciato dall’associazione che gestisce il campo, sono lasciati liberi di circolare e di lavorare in Libia.
Gli stessi funzionari delle Nazioni Unite ci hanno detto che il governo transitorio è molto più disponibile a collaborare di quanto non fosse il regime. E allora c’è da aspettarsi che presto la nuova Libia firmi la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, probabilmente appena ci sarà un governo legittimato dal voto popolare, le elezioni sono previste a giugno 2012. E a quel punto sarà ritenuta tecnicamente un paese terzo sicuro. Con lo stesso ragionamento che si applica oggi alla Turchia quando la Grecia vi respinge qualcuno. E con qualche accortezza i respingimenti potranno riprendere. Ad esempio basterà non prendere i naufraghi a bordo delle motovedette italiane, e lasciare fare il tutto ai mezzi libici purché in acque internazionali, restando così fuori dalla giurisdizione europea.
Insomma la sentenza della Corte europea rischia di avere un valore più storico che politico. Di condannare una pratica del passato, mentre tutti sono al lavoro per ripetere le stesse politiche nel presente. Con un soggetto politico nuovo, la Libia del dopo Gheddafi, e con condizioni materiali migliori. Perché non c’è dubbio che con l’apertura delle prigioni libiche alla stampa, alle organizzazioni internazionali e alle ong, le condizioni di detenzioni stanno migliorando molto.
L’ho visto personalmente anche a Kufra, dove il vecchio infernale campo di detenzione è stato sostituito da una sorta di centro di accoglienza, con le camerate ricavate nei vecchi uffici di un commissariato dato alle fiamme durante la rivolta, e le sbarre sostituite dalle tendine, con la porta aperta ogni mattina per chi vuole andare in strada a cercarsi un lavoro alla giornata. Il tutto in attesa che da Benghazi arrivi l’ordine di trasferire tutti al nord. I somali, e in alcuni casi gli eritrei, per essere rilasciati come rifugiati tramite le Nazioni Unite. Gli altri per essere rimpatriati. Perché è vero che c’è un trattamento migliore per i somali. Ma per tutti gli altri non ci sono eccezioni. Nigerini, sudanesi, maliani, nigeriani, ghanesi, chadiani, tutti vengono sistematicamente detenuti fino al giorno dell’espulsione, di cui per ora si occupa l’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni), ai cui programmi di rimpatrio volontario assistito partecipano anche i detenuti arrestati in frontiera senza documenti.
E questo è il punto. Che cambierà la forma ma non la sostanza. Ovvero che anche una prigione libica con degli standard di detenzione dignitosi, resta una prigione, nella migliore delle ipotesi assomiglierà ai nostri centri di identificazione e espulsione (Cie). E nel ventunesimo secolo non è accettabile privare qualcuno della libertà, sia per una settimana o per un anno, sia in un carcere o in un Cie, perché colpevole di viaggio.
Viaggi che, a dire il vero, non è affatto certo che ricominceranno. Perché è bene sapere che esiste anche questa possibilità. Che dalla Libia non riprendano più le partenze, o almeno non con la consistenza degli anni passati. Certo è vero che in Libia stanno rientrando molti lavoratori da tutta l’Africa, con e senza documenti. Ma l’economia libica ha un grande bisogno della loro manodopera in questo momento di ripresa e di annunciato boom economico per gli anni a venire. Mentre i racconti telefonici che arrivano a Tripoli dall’Italia, degli amici e dei parenti partiti durante la guerra, sono racconti di amarezza e delusione. L’Europa non è più quella di una volta. La crisi, la disoccupazione, il razzismo. Tutti fattori che di certo non incoraggiano a rischiare la propria vita in mare, almeno finché in Libia c’è lavoro.
E in più c’è da dire che, mai come adesso, le autorità libiche stanno puntando a azzerare le reti degli organizzatori delle traversate. E a fermare le imbarcazioni in partenza per l’Italia. Dalla liberazione di Tripoli, ad agosto, fino a dicembre, praticamente non ci sono stati sbarchi, salvo un paio di imbarcazioni soccorse nel canale di Sicilia. A gennaio sono stati fermati circa duecento somali in partenza, tanti quanti quelli giunti a Malta e in Italia nello stesso mese, mentre altri 55 sono morti in un naufragio. E a febbraio non è ancora arrivato nessuno. Sembrano finiti i tempi in cui il regime incoraggiava le reti del contrabbando quando doveva presentarsi al tavolo del negoziato con l’Italia e con l’Europa. Anche se le mafie del contrabbando sanno sempre riciclarsi, se le opportunità di guadagno valgono il rischio. Ad ogni modo sarà la primavera a svelarci i risultati di queste operazioni di contrasto. Quando il mare sarà buono capiremo se la Libia è ancora un corridoio di ingresso sull’Europa. Quel che è certo è che i giovani del sud continueranno a viaggiare, magari su altre rotte verso l’Europa, o magari – sempre di più – verso altre mete in questo mondo di cui l’Europa è sempre meno una centralità e sempre più una periferia decadente.
Il testo della sentenza può essere scaricato qui.
MAMADOU VA A MORIRE
Una vera e propria fortezza con dentro, però, un tesoro che può trasformare la sopravvivenza più becera in vita dignitosa. Questa è l’Europa come la vedono migliaia di immigrati clandestini che ogni anno tentano il tutto e per tutto affrontando viaggi che spesso rasentano le file più basse della disperazione. A raccontarlo è chi è andato a trovarli di persona nei loro paesi di origine, per ricostruirne rotte, percorsi, ricatti e naufragi, dato che molte di quelle storie non hanno avuto e continuano a non avere un lieto fine. È questo il meritevole lavoro, quasi certosino, di Gabriele Del Grande, giornalista, fondatore di Fortress Europe, l’osservatorio mediatico sulle vittime dell’immigrazione clandestina. Con il suo Mamadou va a morire (Infinito edizioni), l’occhio del reporter si mescola alla realtà nuda e cruda che l’Europa spesso si rifiuta di vedere. E così, dai deserti della Libia alla miseria del Maghreb con un salto in Senegal e in Turchia, le mappe si sovrappongono unificate da un unico comune denominatore: la miseria. Che dà il coraggio di affrontare viaggi disumani, a bordo di barche inconsistenti o dentro carichi stipati di merci e di uomini.Dal 1988 più di 12.000 giovani sono morti, così, tentando di espugnare la fortezza Europa. Morire di frontiera, come è stato definito questo stillicidio pressocché quotidiano, è diventata una delle cause di morte più alta dei paesi in via di sviluppo che si affacciano sul Mediterraneo. Il titolo del volume scritto da Del Grande trae spunto da una delle tante storie narrate nel libro, quella di Mamadou appunto ma non si fa in tempo a scorgere il suo volto che subito si sovrappone a quello di migliaia di altri. Una generazione in viaggio. Il più delle volte, però, senza ritorno.
Italiani Brava Gente
Le foto di Enrico Dagnino, pubblicate dal magazine parigino Paris Match, sono un reportage straordinario sulla nostra gentile strategia di ‘respingimento’ dei Migranti.
In ossequio a tutti i trattati internazionali, come assicurava L’ex ministro Maroni.
Eccoli qui, i pericolosi criminali che assediano le nostre coste e vanno ad ingrossare le fila della malavita che mette a repentaglio la sicurezza dei cittadini italiani (o quella degli anacronistici e generosi padani?).
Bossi, con voce stentorea (avete fatto caso che tutti i leghisti hanno un tono da duri del Far West?), ghigna che lui va tra la gente e sa quali sono le reali esigenze del Paese; mica come quelli della sinistra, arroccati nella loro turris eburnea a registrare la continua perdita di voti, rei di aver aperto indiscriminatamente le porte a tutti i clandestini dell’universo, .
Mi chiedo come mai, in una nazione che compatta chiede sicurezza (da chi, da cosa?), una nazione che negli ultimi 15 anni ha goduto soprattutto delle strategie politiche di Berlusconi&Company, a colpi di sondaggi popolari a pagamento, tema lo spauracchio – vero o indotto – dell’orda clandestina che giunge a depredare le nostre ricchezze e stuprare le nostre donne, e non si preoccupi di combattere la vera criminalità organizzata? Qualcuno, prima o poi, dovrà spiegare perché le mafie mondiali abbiano eletto l’Italia a perfetta sede per il riciclaggio del denaro sporco globalizzato, perché l’esecutivo continuava ad affossare o rinviare la class action o il vero contrasto ai grandi truffatori ed evasori? Chissà… Credo che combattere questi reati e questi criminali siano azioni molte più concrete per la ‘sicurezza’ dei cittadini.
Poi, se davvero il paese reale, chiede questo tipo di trattamento per i disperati che vengono fatti passare per ‘feroci saladini’, se davvero la maggioranza degli italiani approva il razzismo mascherato da legalità, allora rinuncio volentieri alla cittadinanza italiana per diventare apolide e clandestino.
Sul sito di Paris Match si leggono i commenti dei lettori a queste immagini terribili: “Ignobile”, “Inquietante”, ecco gli aggettivi più gettonati. Anche qualche nostro compatriota lascia la propria testimonianza e dice: “Mi vergogno di essere italiano”.
Se le ‘attenzioni’ rivolte ai migranti rispecchiano il sentimento attuale del Belpaese popolato dalla ex brava gente, allora, come Gaber e Prezzolini, non mi sento, non voglio più essere, non sono italiano.
FONTI : http://fortresseurope.blogspot.com/2012/02/la-corte-europea-condanna-litalia-per-i.html#more
http://blog.panorama.it/libri/2008/08/02/mamadou-va-a-morire-rotte-ricatti-e-naufragi-di-migranti/
http://pensierosuperficiale.ilcannocchiale.it/?TAG=paris%20match