"Mare Dentro"
“Cosa stai facendo?”
“Sto annusando il mare, Zio. Sai che basta il suo odore per farmi battere il cuore.”
“Via Lucia, se non battesse, saresti morta!” le rispose sorridendo lo zio Alvise, mentre era intento a spolverare i grandi volumi nella biblioteca del suo studio.
“Batte, anche se sei morto dentro. E’ un muscolo inconsapevole e fa il suo dovere, sempre. Fino a quando decide che basta.” concluse Lucia girandosi ad incontrare lo sguardo dello zio che sapeva aver appena alzato dalla pagina ingiallita dei suoi amati volumi, da sfiorare con guanti di morbido e candido cotone.
Beppino non si dava pace. La figlia della piccola Maria, l’amatissima sorella scomparsa tra le nebbie della sua mente in un pomeriggio di novembre, quella bambina che aveva sempre qualcosa di magico conservato nelle tasche dei suoi vezzosi grembiuli, stava diventando cieca.
Sostenne il suo sguardo limpido nonostante la malattia e, come sempre, la domanda che urlavano i suoi occhi rimaneva senza risposta.
“Perché?”
“Perché cosa, Lucia.”
“Perché a me?”
Il remo di un barchino stava sfiorando l'acqua del rio con tocchi gentili e ritmati, come fa una forchettina con le ultime briciole nel piatto, dove si affacciava il piccolo balcone riparato dal sole da una tenda verde, rifugio di Lucia da quando si era trasferita a Venezia. Non si trattava di un canale a grande scorrimento e perciò si riuscivano a cogliere i piccoli momenti di una quotidianità laboriosa, godendone di ogni singola emozione.
“Non che starei meglio se fosse capitato a qualcun altro, intendiamoci, ma non riesco a capire perché proprio a me questa malattia. Io devo vedere, zio, io ho bisogno come l’aria di osservare la vita attorno a me! Ho bisogno di sorridere alla vista del trucco troppo vistoso della zia Nerina, devo perdere lo sguardo tra le ordinatissime file di fagioli che la bisonna Virginia cura nel suo orto. Devo vedere le scalfitture del legno di ciliegio con cui è costruita la scala dove tu ti rifugi insieme ai tuoi libri più irraggiungibili! E poi mi manca tanto la campagna della mamma, l’odore dell’erba appena falciata che i coniglietti annuseranno prima di masticarla silenziosi e metodici, ho bisogno di calpestare la terra a piedi scalzi prima che sorga il mattino, ho bisogno di sentire le cicale all’ombra del granaio e di perdermi a pensare osservando le eleganti geometrie delle ragnatele tessute tra le travi del soffitto, ho bisogno di emozionarmi al tocco morbido della mammella della vacca e del suo latte caldo e schiumoso…io, Zio, vorrei tanto andare in campagna, anche solo per un giorno.”
“Ma Lucia, non ti piace più Venezia? Volevi sempre venire qui da bimba e poi sai che io non ho mai guidato in vita mia!”
Lo zio era nel giusto.
“Volevi sempre venire a Venezia…” ripeté a voce alta lo zio, credendo in realtà di essere con i suoi pensieri, mentre gli ritornavano alla mentre gli sguardi incuriositi di Lucia bimba, le mille domande, i sereni sorrisi ogni qualvolta scopriva un tesoro, quello che lei considerava un tesoro, come un bicchiere sbalzato della grande credenza, i riccioli di marmo che incorniciavano le statue dei leoni sparsi qua e là nel piccolo giardino tanto, alle volte, da sembrare di essere nella savana ed i gradini di marmo bianco, consunto, che sempre più stretti e bui, le consentivano di raggiungere la cantina ed i magazzini, dove forte si sentiva il pacioso sciacquio del mare. Alzò lo sguardo dai suoi libri e dai suoi pensieri, mentre la laguna si tingeva di rosso, salutando il giorno che stava finendo.
...
Lo zio entrò come un fulmine nello studio.
“Presto Lucia! Si va in gita, in campagna! Tu cambiati ed io preparo Alvise!"
Alvise, il sonnacchioso golden retriver addestrato ad accompagnare Lucia lungo i corridoi della grande casa, e che a stento si tratteneva nell’inseguire le gabbianelle al mercato di Rialto, si alzò stiracchiandosi.
Lo zio cedette a Lucia il guinzaglio, le porse il braccio, uscirono di casa attraverso il piccolo ponte che profumava delle rose antiche tanto amate dalla nonna, camminando di gran lena, con energia, un passo dietro all’altro che sembravano saltelli di gioia.
“Ma zio, dove stiamo andando?” chiese Lucia, mentre via via si allontanavano le voci ed i suoni che scandivano i percorsi abituali delle sue passeggiate cittadine vissute a naso all’all’aria
“E’ una sorpresa! Fidati!” sussurrò Beppino, appena ansimante, un po’ per il passo sostenuto ed un po’ per l’eccitazione.
Si fermarono e furono accolti da una voce calda, morbida. Buona.
“Faccia attenzione Signorina, c’è uno scalino malandrino. Ciao Beppino! E tu devi essere Alvise. Ma entrate e fate come foste a casa vostra. E attenti non infarinarvi troppo!” concluse sorridendo la voce di Bruno, l’artigiano dell’arte bianca che lo zio aveva conosciuto durante una sessione di ricerca alla Marciana, quando quasi per caso, scoprirono una vecchia ricetta, un biscotto preparato con le briciole di mandorlato, che un cuoco distratto aveva dimenticato, secoli prima, tra le pagine della prima edizione del libro di Bartomeo Scappi.
Lucia avvertì la confidenza tra i due uomini e ne fu divertita. Alvise l’accompagnò vicino ad una grande finestra da dove entrava impetuoso un sole caldo, caldissimo. Il cagnone si sedette, aspettando che la sua umana trovasse il giusto spazio dove posizionarsi.
“Lucia” le fece Bruno parlando lentamente come fosse una bimba al primo giorno di scuola, “ti guiderò nel mio mondo: ti farò toccare le farine e gli altri ingredienti, la sagoma delle impastatrici e degli stampi, i vassoi ed i matarelli, insomma i miei strumenti, i miei fedeli compagni.”
Le fece indossare un grembiule e glielo annodò quasi sul grembo, dopo aver incrociato i nastri dietro la schiena. “Questo è un torcione”, disse, mentre le aggiustò in vita un canovaccio di canapa robusta.
Per Lucia fu l’inizio di un viaggio in cui tutti i sensi appresero come non le accadeva da troppo tempo. Le mani si tuffarono prima ed accarezzarono poi farine impalpabili e dalle profumazioni più diverse, gustò cristalli di zucchero che sapevano di canti lontani, si sorprese con un burro dal prepotente gusto di latte e di prati e rise al rumore traballante della sfogliatrice che ogni tanto lasciava scappare dal nastro le sfoglie che via via rendeva più sottili.
“Voglio vederti.” esclamò all’improvviso Lucia, mettendosi quasi di fronte a Bruno che smise di respirare, imbarazzato.
Con le mani che sapevano di farina e di zucchero gli toccò le sopraciglia ed erano come le aveva immaginate, ben disegnate e folte ma non ispide
“Sono nere, vero?”
“Si, come i capelli”, rispose cercando di non reagire al solletico.
I capelli! Alzò di poco le braccia e tuffò le dita in una lanugine morbida. Annusò da vicino. Era profumata. Non riusciva a capire la forma, le radici le aveva ben sentite ma sembrava non ci fossero le punte.
Bruno sorrise. “Aspetta” le disse “porto sempre i capelli raccolti”. Con un veloce movimento, dettato dall’abitudine, si tolse la striscia di tessuto che annodato ad arte avvolgeva i capelli e li proteggeva dalla farina e dalla fatica. Scesero dei boccoli prima sulle spalle, poi lungo la schiena. Un mantello dai mille odori, che sapeva di uomo.
“Ma hai i capelli lunghissimi!” esclamò Lucia intrecciando delicatamente le dita con i boccoli e mentre cercava di capirne la lunghezza la sua mano sfiorò le braccia di Bruno, muscolose, forti. Si concentrò solo sui polpastrelli e con piccoli tocchi, quasi dei sussurri, sfiorò gli avambracci e scese fino a toccare i polsi, sottili, e le mani dalle dita tornite.
Improvviso, l’abbraccio.
Avvolgente, caldo, profumato.
Dopo i primi secondi Lucia lo restituì. Le sue braccia che da troppo tempo non venivano scaldate dal sole trovarono un varco e gli cinsero il bacino. Poi si allungarono e si allargarono sulla schiena, che sentiva ampia, senza riuscire a raggiungere le spalle.
“Devi essere davvero un pezzo di ragazzo”, sussurrò Lucia, appoggiando la guancia sinistra sul petto di Bruno.
“Credo che maneggiare sacchi di farina per gran parte della giornata faccia la sua parte”, le rispose “ma credo di più al fatto che tu non ricevi un abbraccio da troppo tempo.”
Lucia lo strinse appena, come ad incoraggiarlo a continuare.
Lo conosci il movimento che prende il nome di “Free Hugs”?
“Abbracci liberi?” continuò lei.
“Si, è nato qualche anno credo in Australia. Persone comuni offrono il loro abbraccio a perfetti sconosciuti. Siamo connessi con il mondo eppure la nostra pelle, il nostro organo di senso più completo e complesso diventa sempre più arida, sempre più trascurata. L'abbraccio è una grande medicina, trasferisce energia e dà alla persona che viene abbracciata una forte emozione. Si dice che abbiamo bisogno di quattro abbracci al giorno per sopravvivere, otto per mantenerci sani e dodici per crescere come esseri umani. Non bisognerebbe mai far tramontare il sole senza un abbraccio”.
Con queste ultime parole Bruno sciolse l’abbraccio e le raccolse i capelli che a loro volta si erano sciolti, come volessero voluto prendere parte al dono dell'abbraccio.
Era oramai sera quando lo zio la venne a prendere.
“Ti è piaciuta la gita?” le domandò con voce sorniona.
Lucia lasciò che si avvicinasse e l’abbracciò, in silenzio. Alvise abbaiò e si alzò sulle zampe posteriori, raggiungendo Lucia in altezza abbracciandoli, a suo modo, entrambi.
“Lo conosci il movimento di Free Hugs”? gli chiese Lucia sciogliendo l’abbraccio e cercando di tranquillizzare Alvise che scodinzolava come se non ci fosse un domani.
“Perché ne facciamo parte entrambi da oggi. Ma ti spiegherò tutto tornando a casa.”
Si girò, cercando Bruno, aveva imparato il suo odore e sentiva che si stava avvicinando per salutarla.
“Torna presto” le disse sfiorandole il palmo delle mani “c’è da far sorgere il sole ogni mattina.”
...
E’ di Lucia la ricetta della sfida #47 dell’Mtchallenge lanciata da Caris, il cui nome ,“Mare Dentro”, sta ad indicare il luogo dove l’acqua avvolge e regala l’abbraccio più completo che ogni essere umano può ricevere. Del resto noi ci formiamo nell’abbraccio del liquido amniotico e qualcosa deve sicuramente voler dire.
Acqua quindi ma acqua feconda come quella dei mari, dove ha avuto inizio la vita, e quella della laguna di Venezia, per me ovviamente, è stata un’acqua fecondissima e che ha saputo accogliere, raccogliere, elaborare, condividere.
Lucia ha ricordi però di terraferma e quindi il pan di spagna non poteva che sapere di erba (ecco l’uso della farina di canapa sativa) e di latte (la ricotta fatta in casa). Ma il Sud che è dentro di me non poteva non metterci lo zampino ed ecco la dolcezza, unica, dell’estratto di datteri e di questi inseriti come elemento croccante, unitamente ai pistacchi tritati. I datteri in questione provengono da un’oasi particolare, quella di Al Jufrah, un crocevia di uomini e animali che trovavano nelle maestose palme, nell’acqua fresca e nei succosi datteri ristoro e consolazione e diventata presidio Terra Madre, in un luogo in cui ora regna solo caos e disperazione, come la Libia del post dittatore.
Il sud ed il nord anche nella bagna, grazie al miele di barena, un luogo della laguna dove apicoltori “estremi” portano le arnie, da luglio a settembre, in una specie di transumanza tra terra e mare e che grazie alla particolare vegetazione formata da astro marino, limonio comune e salicornia veneta dona al miele un sapore salmastro; la parte alcolica viene da Marsala e da un vino passito, il Bukkuram, che da solo potrebbe narrare racconti lunghi una vita.
Come vedete tutto torna: si parte dall’acqua e dalla contaminazione e si torna nell’acqua e nella contaminazione. Perchè unitamente al rispetto sono come gli abbracci: aiutano a diventare grandi.
“Mare Dentro” ovvero Pan di Spagna con farina di canapa, farcia di ricotta al cardamomo con datteri, pistacchi e fave di cacao