Due giorni, due solitudini, un amore. Ecco spiegato in una sintetica formula l’essenza di Marty, vita di un timido, un piccolo cult di Delbert Mann oggi sommerso dalle centinaia di variazioni sul tema che ha ispirato, capace nell’anno di uscita (1956) di vincere contemporaneamente l’Oscar (furono quattro, con sette nomination) e la Palma d’Oro e poi di una lenta rimozione dalla memoria collettiva. Scritto da Paddy Chayefsky, si guarda nella sua essenziale brevità come si legge un racconto breve, capace di dire più di tanti agognati melodrammi sull’amore di un uomo e una donna, che poi è pur sempre un incontrarsi, parlarsi, innamorarsi, non a caso i tre tempi di un film dal ritmo compiacente, tenero e docile, che procede senza strappi, trasforma la prevedibilità in arte ed è capace di mostrare come si accantona quell’emozione viscerale che il poeta portoghese Mário de Sá-Carneiro ha definito, da qui all’eternità, “la tristezza di non essere mai due”.
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