Matteo Renzi e la difficoltà di "cambiare verso" all'Italia
Ieri Matteo Renzi ha presieduto il suo primo Consiglio dei Ministri.
Secondo molti commentatori, l’esecutivo dell’ex sindaco di Firenze sarebbe il più giovane della nostra repubblica, con una età media di 47 anni, quello con più donne, esattamente la metà dei colleghi uomini, e una delle compagini più ridotte, in termini numerici, della storia italiana, appena 16 membri, contro i 22 del predecessore Enrico Letta.
Faceva effetto vedere tutti quei posti vuoti, guardando le foto del primo Cdm.
I ministri, in quella sala così grande e solenne, sembravano quasi dispersi, per quanto erano pochi, rispetto agli scranni disponibili.
Se tutti questi elementi, la giovane età dei ministri, l’alto numero di donne, etc., sono importanti per dare un segno di rinnovamento e discontinuità rispetto al passato, non sono però altrettanto determinanti per capire se il nuovo governo riuscirà a impostare tutte quelle riforme economiche, sociali e politiche necessarie a creare le condizioni per un nuovo sviluppo italiano che permetta l’uscita dalla crisi iniziata nel 2008.
Un crollo dell’economia, iniziato negli Usa, con il fallimento di Lehman Brothers, e culminato poi con quella che economisti, come Paul Krugman, hanno definito la Grande Recessione.
Una crisi che in Italia si è innestata su elementi preesistenti (la carenze di investimenti esteri, l’alto livello di criminalità organizzata, la corruzione endemica, l’evasione fiscale altissima, unita ad un livello di tassazione eccessivo e, last, but not least, uno scarsissimo senso civico) in grado di amplificarne gli effetti ed estenderne nel tempo le conseguenze, tanto da far dire a molti che il nostro paese rischia di avvitarsi in una spirale di stagnazione di almeno un decennio, simile a quello vissuto, di recente, dal Giappone.
Per evitare che ciò accada, il nuovo governo, così come sostenuto spessissimo da Matteo Renzi, prima nella campagna per le primarie della segreteria del Pd, e poi durante la difficile convivenza con Letta, dovrà “cambiare verso” al paese.
Dovrà agire per rinnovare dalle fondamenta la nazione italiana, abbassando le tasse, creando le condizioni per un aumento dell’occupazione, della riduzione delle disuguaglianze, della eliminazione di una serie di privilegi e diritti acquisiti, incrostati nel tessuto sociale, e pronti a resistere al cambiamento con ricorsi giurisdizionali e carte bollate.
Ma riuscirà a farcela? Non è facile allo stato attuale delle cose rispondere con sicurezza ad una domanda così dirimente.
Certo, la volontà del presidente del Consiglio è importante.
Matteo Renzi sembra pronto a operare con tutte le sue forze per dare un segno di cambiamento.
La sua idea di realizzare una riforma al mese, come sostenuto di fronte ai giornalisti, appena uscito dal colloquio con il presidente Giorgio Napolitano, non è importante in sè (anche se molti sperano nelle sue parole) ma lo è come mezzo per gettare le basi per un nuovo metodo di governo.
Affermare di mettere in campo una riforma al mese, partendo dalle legge elettorale per passare a quella costituzionale, del lavoro, della pubblica amministrazione, indica l’intenzione di condurre una azione di governo dinamica e in grado di dettare l’agenda sia alla politica e sia ai media.
Una modalità simile a quella adottata negli anni ’80 dalla presidenza di Ronald Reagan.
All’epoca, Roger Ailes, allora consigliere di Reagan, oggi presidente del canale conservatore Fox News, postulava la necessità di dominare il flusso di notizie e il dibattito nazionale con una comunicazione aggressiva e innovativa, in grado di mettere sempre in primo piano l’offerta politica della Casa Bianca e gettare in ombra le iniziative dell’opposizione.
Una tattica efficace (nota con il nomignolo di “Orchestra Pit Theory”) che permise a Reagan di padroneggiare l’opinione pubblica dell’epoca e imporre la propria agenda politica, giusta o sbagliata che fosse.
Con le sue affermazioni e il suo spregiudicato utilizzo dei social network (da Twitter a Facebook), Renzi sembra aver imparato la lezione di Reagan, tuttavia, questa non è sufficiente per riuscire a ottenere risultati paragonabili a quelli di “The Gipper” (come era chiamato l’ex attore di Hollywooddai suoi sostenitori).
Rispetto a Reagan, Matteo Renzi non dispone di sufficiente capitale politico.
Questo elemento impalpabile, ma essenziale per il successo dell’azione di ogni governo si ottiene solo con una legittimazione elettorale rilevante.
Ad esempio, quando Barack Obama fu rieletto, nel novembre 2012, con un notevole distacco su Mitt Romney, riuscì ad ottenere un risultato elettorale importante che gli garantì un capitale politico sufficiente ad imporre al paese il suo programma.
Non sempre i politici riescono ad utilizzare al meglio il loro capitale politico (lo stesso Obama non è riuscito, finora, a spenderlo per regolare l’uso delle armi o per una organica riforma dell’immigrazione), tuttavia, per riuscire, è necessario averlo.
Non se ne può prescindere.
Matteo Renzi ha vinto le primarie per la segreteria del Pd con un buon risultato personale, ma i due milioni di elettori che lo hanno scelto come leader del loro partito non sono nemmeno paragonabili a quelli che votano per le elezioni politiche nazionali.
Egli dispone quindi di una investitura popolare, ma con numeri non in grado di assegnargli quella autorevolezza che solo una reale vittoria alle urne può fornire.
Il suo capitale politico è quindi molto ridotto.
Non solo, gli alleati con cui ha costruito il suo governo, dai conservatori del Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano, alla Scelta Civica dell’ex Mario Monti, non sono dei compagni di strada in grado di permettergli davvero di “cambiare verso” all’Italia.
Matteo ne è ben consapevole e, a mio giudizio, la strada che dovrebbe seguire è quella di agire per imporre una o due importanti riforme (ad esempio quella elettorale, costituzionale o del lavoro) e poi spingere per andare al voto.
Solo così potrà presentarsi come colui che ha avviato il cambiamento del paese e potrà quindi sottoporsi al giudizio degli elettori con il carisma adeguato ad ottenere un mandato popolare in grado di dargli i mezzi per realizzarlo davvero.