Matteo Renzi e Pierluigi Bersani: una diversità di forma ma anche di sostanza
Non indossare la giacca, ma lasciare solo la camicia e la cravatta, dice Giuliano Da Empoli, uno dei principali consiglieri di Matteo Renzi, è un modo per indicare la propria diversità da Pierluigi Bersani e dalla vecchia sinistra.
A prima vista una affermazione del genere potrebbe sembrare riduttiva, uno schermo, una maschera dietro cui nascondere una concreta mancanza di contenuti, ma in realtà non è così.
Le maniche di camicia con cui Matteo Renzi ha condotto la sua campagna elettorale per le primarie del PD, dal discorso di Verona al dibattito a due con Bersani di mercoledì scorso su Rai Uno, sono un modo per affermare la propria diversità dal competitor interno al Partito Democratico non solo in termini di idee, ma anche visivamente, secondo una logica di tipo anglosassone e più specificatamente americana.
In quel microcosmo politico le differenze anche visuali, immediate, tra i contendenti alla leadership non sono sinonimo di pochezza di contenuti, ma sono strumenti funzionali a evidenziare e rafforzare in modo diretto ed istantaneo differenze sostanziali anche nei programmi elettorali.
In un sistema come quello statunitense, intriso di cultura televisiva e, di conseguenza, della forza dell’immagine e del suo immediato impatto sull’elettore e sulle possibili scelte nel segreto dell’urna, la scelta dei candidati di distinguersi, sfruttando anche aspetti apparentemente futili (la camicia senza la giacca, una cravatta dai colori più forti, contro una con tinte rassicuranti, etc..), e che noi italiani definiremmo insignificanti o forse peggio, specchietti per le allodole, utili a nascondere vaghezza di programmi e contenuti, è ormai una prassi assodata.
Di più, dare rilievo a simili dettagli, rappresenta una componente essenziale del messaggio politico che i candidati vogliono fornire agli elettori, senza che questo indebolisca la forza delle loro idee.
Sin dal dibattito per la presidenza tra John Kennedy e Richard Nixon del 1960, il primo trasmesso in diretta televisiva, l’aspetto dei contendenti, i loro vestiti, il modo di guardare la telecamera, fino ai loro stessi tic nervosi, hanno contribuito a rafforzare o indebolire il contenuto della proposta politica dell’uno o dell’altro.
La camicia azzurrina di JFK, perfettamente adatta alle luci forti dello studio televisivo, contrapposta a quella bianchissima di Dick Nixon in grado di far risaltare una barba poco curata, sono entrate negli annali della comunicazione politica e della tecnica elettorale.
L’attenzione di Bill Clinton alle parole di George Bush sr., in uno dei dibattiti televisivi della campagna del 1992, e la serietà del suo linguaggio corporeo, opposta allo sguardo furtivo, ma evidentissimo, all'orologio da parte del suo avversario mentre l'ex governatore dell’Arkansas parlava sono dettagli in grado di fare la differenza.
Elementi formali che hanno permesso sia a Kennedy, sia Clinton (e a molti altri loro successori) di distinguersi dagli avversari, approfittando della immediatezza del mezzo televisivo, per poi batterli alle urne anche grazie a programmi sostanziali e innovativi.
Lo stesso discorso va fatto per Matteo Renzi. La sua camicia, contrapposta alla giacca di Bersani, è un accessorio con cui il sindaco di Firenze vorrebbe esaltare la sua originalità rispetto all’avversario, sfruttandolo per dare più forza al suo messaggio di cambiamento e di rottamazione delle vecchie classi dirigenti.
Una differenza in apparenza solo nella forma ma in grado di riflettere, adattandola ai ritmi incalzanti del mezzo televisivo, una diversità di idee e di programmi innovatori molto più ampia e profonda.
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