Maurizio Mattiuzza: cosa trattenere, cosa custodire

Da Narcyso

Maurizio Mattiuzza, GLI ALBERI DI ARGAN La Vita Felice 2012

 Mi e’ capitato, a volte, parlando di certi libri, di dire che non avrebbero bisogno di una recensione perché si danno completamente nel loro senso, come doveva succedere, immagino, alla poesia nei suoi albori: quando la poesia era fatta per essere cantata e suonata, ascoltata e condivisa – e questo, quando succede, non è solo operazione del cuore, come si crede, afflato, trasporto, ma qualcosa di più complesso che coinvolge anche la memoria, la memoria di cose e luoghi e persone che abbiamo conosciuto, o che forse avremmo voluto conoscere; la malinconia che ci viene quando leggiamo  come se fossimo stati noi stessi a scrivere, come se quelle parole ci riguardassero personalmente.

  Avviene, questo, in quei poeti che si pongono il problema del perchè non si legga poesia oggi, che cosa sia avvenuto di drammatico, tra il lettore e la poesia e, invece di darne spiegazioni, si mettono a scrivere, recuperando quel “tu” perduto che un tempo era espressione di uno sguardo, di uno specchio. Perchè oggi la poesia non ha bisogno del “perchè” si scrive ma del “come si scrive”, di un pensiero che ritorni ad essere gesto, come direbbe Corrado Bagnoli.

  “La tua mi sembra una poesia libera” dico a Maurizio in una conversazione, “e questo è per me, già una definizione di critica”.

Perchè il problema, oggi più che mai, in questo clima di dispersione che viviamo, è appunto, il cosa trattenere, il cosa custodire; quali poeti,  quale riconoscenza, quali modelli, quali maestri. Quale paesaggio, dramma di popolo o di singolo, prima della visione. Quale lingua trasmessa, ereditata, che non sia quella delle scuole, dei canoni, dei poteri. Quale lingua radicata in una non lingua, nel residuo di una voce  comune,  ormai destinata all’estinzione.

Questo libro di Maurizio Mattiuzza mi sembra un libro non scritto per perpetrare modelli o iscritto in una delle tante lingue che circolano fra le patrie lettere;  e questo perchè i suoi riferimenti non sono i poeti ma “gli altri”:  il mondo, certo -  ma tutto il mondo non si può dire se non descrivendone i modelli, gli archetipi!… – Allora rimane ciò che conosciamo, il mondo intorno a noi, per come l’abbiamo conosciuto attraverso gli altri e per come l’abbiamo filtrato attraverso il nostro sguardo.

  E poi il canto, la musica e le parole. E il cantare insieme, me lo dice espressamente Maurizio, vuol dire trovare le parole giuste da far risuonare nell’altra voce che è la musica del mondo;  vuol dire trovarsi nelle condizioni, a volte, di dover prendere delle decisioni comuni. La poesia allora, è sempre responsabile di qualcuno, di qualcosa. Deve rendere conto, vincere la sua estrema solitudine e avvicinarsi quantomeno al recinto di una casa. E bussare, affamata. Chiedere ospitalità.

  Se la poesia cosiddetta civile e politica attraversa sempre il rischio di una pronuncia talmente abbassata da sembrare cronaca,  non meno pericoloso è giocare con le forme di una sperimentazione che vuole proporre un linguaggio alternativo al mondo,  attribuendosi una qualche funzione strumentale per cambiarlo, o, se questo non sia possibile, dimostrare l’esistenza di un altro mondo. La poesia di Mattiuzza presenta, invece, una naturalezza che le deriva da un milieu geografico, dalla conservazione di un orizzonte che la modernità sta spostando sempre di più verso l’archiviazione e la storicizzazione.

  Queste poesie ci dicono che la sparizione del mondo contadino ha ancora qualcosa da insegnarci. Non nasce, la poesia, da un attrito, più o meno vistoso, tra le istanze di una memoria ferita e quelle di una modernità  pronta a demolire tutto? Non nasce la poesia dall’attrito tra dimenticanza e conservazione, infanzia e passaggio? Voce dell’io e voce del noi? Voce della campagna e voce della città? Che cosa è prevalso e che cosa abbiamo perduto? E’ possibile riconsiderare l’opera di molti autori più recenti come operazioni risultanti dall’attrito di questi due blocchi tematici? E’ possibile considerare il riutilizzo dei dialetti, e idioletti, come recupero  di interi pezzi di “paesaggi”? E’ possibile riconsiderare alcuni autori del novecento, ormai in ombra o dichiaratamente “sottratti”, come l’espressione di un passaggio epocale, fattosi tema e poi rimozione?

Nel libro di Mattiuzza la ri/evocazione di un mondo non avviene attraverso la malinconia dello scomparso, ma attraverso il tema del viaggio, dell’andare oltre per ritrovare i colori della propria povertà. Non i nostri alberi, che nessuno canta più, ma la fatica degli alberi di Argan, tale e quale a quella degli uomini. E’ un procedimento assai sensibile,  che ci segnala come la parola abbia bisogno di nutrirsi di qualcosa che non vediamo più da vicino, di cui ormai possiamo parlare solo attraverso l’altro linguaggio, asettico e distaccato, che è la Storia.

  Mattiuzza e’ poeta errante, eppure condannato a rientrare nei suoi confini, nel tema della terra e della voce povera. Quindi dell’infanzia, degli anni di formazione, dell’amore scoperto dietro le porte della sua casa mentale. Dell’essersi riconosciuto improvvisamente adulto in un momento preciso della sua adolescenza, e di averne provato dolore; di cantare l’amore portando nelle parole la casa, gli oggetti, i riti…che segnalano la presenza dell’amore. Il suo libro è la dimostrazione di come la poesia possa dire ancora della vita, senza la pretesa di rinunciare alla complessità della forma e senza la presunzione di potersi sostituire – altra forma – alla vita.

Sebastiano Aglieco

***

Gli alberi di Argan

La fatica degli alberi di qui

noi non la sappiamo

eppure sembra la stessa

degli uomini che hanno

radici dove non c’è acqua

e vengono su così

col tronco irrobustito dalla sete

e queste lingue vecchie

come il sale

senza spreco

di parole

in cui ogni saluto

ogni stretta di mano

sembra dirti

fidati del mondo

ma stai attento

che la vita la capisci solo camminando

controvento

in Marocco, on the road , con Nadia e Silvio. Settembre 07

***

La matematica della natura

Guarda quanta fatica fa un uomo,

adesso

a conservare il suo passato, ad essere

se stesso

e ritrovare il mistero di tutti

quei continenti

che il suo sguardo di bambino

disegnava in mezzo ai campi

lungo i fossi

di un infinito conosciuto camminando

scalzi

alberi, rami

quel pezzo di cielo che ci manca

tra il silenzio delle stelle

nella gioia, stanca,

della sera

la matematica della natura

vedi è come un salmo, è una preghiera

che si riceve in dono da ragazzi

si impara dalle rughe

dei nonni, dal coraggio di chi sa

tagliare un noce quando è l’ora

della lama

mantenendo la promessa

di piantarne un altro appena

la stagione sboccia e chiama

foglie verdi

non è rispetto, è di più

proprio un amore, un orgoglio

che non perdi e ti rimane addosso

con l’odore di pioppo

di sigaro toscano

la voce di un dio

troppo lontano

e che non ha avuto mai

tempo libero per noi

per le domande che facciamo al vento

quando vediamo sparire e frantumarsi

nel cemento

il nostro mondo fatto di stagioni vere e

carezze ruvide, pulite come

la brina

la storia fa il suo corso, mi dirai,

ma la storia, guarda, sai

non siamo noi

ma le montagne, i grilli

le volpi che si scavano la tana

dentro il buio

quello che esiste da prima e va lasciato

proprio come se noi passando non l’avessimo

toccato

***

Il coraggio più grande, sai,

lo abbiamo all’inizio

quando nasciamo come erba

e passiamo sull’orlo

di tutte le cose

visibili

poi impariamo a parlare

a scrivere, a essere

scaltri

prudenti

a mostrarci di sasso, farci

accorti

ed è come imparare

a sognare da morti

***

Waiting room

I’m patient boy, I wait I wait I wait

Fugazi

La mia valigia, la tua

messe a caso in qualche

sala arrivi

nascondono le cose per come

sono andate dopo

ho cambiato dopobarba

indirizzo, qualche pensiero

sul mondo e chissà

se cercandomi lo sai

che mi fermo sempre

almeno un momento

in mezzo al caos affollato

dei treni

per provare di nuovo a

sentire di nuovo a

sentire com’è

preoccuparsi, sognare

quando hai qualcosa e qualcuno

da aspettare

***

La mia casa  (con te)

La mia casa, spesso,

adesso

è nel tuo letto

nell’abbraccio in cui

mi tieni stretto

rimettendomi al mondo

il nostro primo figlio

pensa che strano, sono proprio io

io che non sapevo nulla

e non ho

nemmeno pianto

dormendoti la prima volta accanto.


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