E sì che la serata era iniziata già male. Questa bella pensata di andarmene al cinema il 5 gennaio prefestivo, vado sul sito del multisala ad acquistare il biglietto, e noto che la sala sarà pressochè piena. Già questo mi infastidisce anzichenò, se penso che sarò rinchiuso con circa 200 cristiani, almeno metà dei quali probabilmente degli idioti.
Arrivo al multisala, ed è la suburbia delle suburbie. Parcheggio praticamente in tangenziale, tra un platano e una prostituta, 5 minuti a piedi ed entro nell’atrio, dove un’orda di cavallette prende d’assalto la biglietteria, mentre la restante metà affluisce alle sale come se fossimo a San Siro. Entro in sala, ho scelto il mio classico posto defilato e vicino all’uscita, accanto a me una coppia di decerebrati si scambiano baci con un secchiello di popcorn in mano grande quanto il cesso del mio bagno.
Vabè, inizia il film. E’ Eastwood, e solo questo vale il prezzo del biglietto. Per carità, i dubbi ce li ho, e tanti. Anzitutto, ho ancora davanti agli occhi il suo ultimo, Invictus, ed è un campanello d’allarme mica da poco. Poi il tema del film, il paranormale, la vita dopo la morte, mi pare una roba fritta e rifritta su cui mi pare difficile tirarci fuori qualcosa di interessante e nuovo. Certo, se Eastwood è ancora lui, ce la può fare. Se ha fatto piangere a 20 anni un vecchio stronzo come me con I Ponti di Madison County, un melodramma che sembrava fatto per le serate solitarie delle vecchie zitelle, Eastwood può farcela, mi dico.
Il film in realtà comincia pure bene. La scena dello tsunami è potente e realistica, girata a regola d’arte da quello che rimane sicuramente il migliore e più classico “metteur en scene” del cinema contemporaneo. Ma chiusa questa scena, inizia la noia. Si tratta di tre storie che si dipanano indipendenti, per incrociarsi alla fine. Bene, la storia che vede protagonista Cecile de France (più topa che mai,diobono), giornalista sopravvissuta allo tsunami che comincia ad avere visioni e si fissa sull’al di là, perdendo lavoro, carriera e fidanzato, è di una piattezza e insignificanza rare. La storia di Matt Damon, sensitivo stanco di veder proiettate nella mente al contatto con le persone, le immagini di gente morta, è lievemente meno insulsa, ma solo di poco, e siccome lui è sempre più tarchiatello e monoespressivo rispetto ad una decina di anni fa, la scelta dell’attore non si rivela felicissima. La terza storia, quella del bambino londinese, è sicuramente più toccante, e forse in tempi migliori il buon Clint avrebbe potuto farci un film intero solo con questa parte del lungometraggio. L’incrocio finale delle storie dei tre protagonisti è priva di sussulti, ingegno, e il film scorre piatto fino alla fine, quasi rassegnato, e francamente non si capisce dove il regista voglia andare a parare, cosa voglia comunicare su un tema così ingombrante, complesso, contraddittorio. Non commuove, non emoziona, non fa riflettere. Ed è troppo lungo rispetto ai pochi contenuti che offre.
Mentre esco da cinema penso, a capo chino, che probabilmente ce lo siamo giocato. Oppure è incappato in due pessime sceneggiature da cui era possibile cavare poco di più. Oppure dopo essersi accommiatato come attore in Gran Torino, ha staccato la spina e gliene fotte cazzi. Sono passati pochissimi anni da quando il regista di Bird, Un Mondo Perfetto e Mezzanotte nel giardino del bene e del male, piazzò quasi di fila Mystic River (a mio giudizio il suo capolavoro), lo straziante Million dollar Baby e Lettere da Iwo Jima (film di guerra rigoroso e profondo come non se ne vedevano da secoli). Poi, un lento declino, fino a quella cacata vista ieri sera.
Hai 81 anni, caro Clint. Campa altri cent’anni, ma lasciaci con un ultimo botto, come fece Altman con Radio America. Non ti chiedo un altro solido western alla Spietati, e nemmeno la poesia di Bird. Ma diamine, quella roba vista ieri sera non la rifare più, ti prego.