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Miele - Storie di vita e di morte, con o senza zucchero.
Creato il 22 maggio 2014 da Valentina Orsini @Valent1naOrs1n1Valeria Golino esordisce alla regia con l'adattamento di un romanzo per niente facile, "A nome tuo" di Mauro Covacich. Il film assume nel titolo un aspetto diverso, quasi a dire subito allo spettatore che, nonostante di morte si parli, ciò che rimane ha un sapore che non fa male. Dolce, come il Miele.
Sarà davvero così? Be', no.Jasmine Trinca è Irene, una donna cinematograficamente vittima dei cliché italiani. Sola, apparentemente senza una fissa dimora, una casa che dà sul mare e nessuno con cui condividerla. Viaggi in Messico non alla ricerca di souvenir ma di un preciso prodotto farmaceutico, il Nembutal, un barbiturico veterinario ad azione rapida. Un amante, un migliore amico nonché ex ragazzo, un padre che esiste, ma così, tanto per dire di averne uno e una madre morta dieci anni fa. La vita di Irene va avanti così, entra e esce dalle case di tutti quegli uomini o donne, decisi a mettere fine a tutto. Irene segue rigorosamente la prassi, spiega ai pazienti e ai loro assistenti che si può ancora tornare indietro, e puntualmente ciò non avviene. Chi sceglie di morire quasi mai torna sui propri passi. E va così sempre. Irene prepara il necessario, cioccolata e un po' di musica se il paziente gradisce e poi il sonno definitivo. Il corpo si abbandona e lei (una donna che non ha un ruolo ben definito nel mondo e nella società, o meglio ce l'ha, ma è illegale, non accettabile umanamente/moralmente), è lì.
E noi con lei assistiamo a quella "morte dolce", voluta e trovata insieme alla disperazione di una vita finita già da un pezzo. Con un pizzico di spietato e cinico voyeurismo, che ci appartiene pur non consapevolmente, la Golino evita se non altro la retorica del dolore pedante e non si impone sulla questione. Anche se poi alla fine apprezziamo di più chi lo fa. Ma qui è in ballo una questione ben diversa, complessa e delicata, la più intima e indicibile delle questioni. Desiderare la morte è come sognare un mostro orribile che ci viene incontro e, nonostante la paura, trovi in lui la possibilità concreta di ricominciare a vivere. Ma come lo racconti? Come te lo spieghi questo desiderio di lasciarsi prendere e sbranare da quel mostro?
La mia è una teoria ovviamente, un pensiero che ho io di questo terribile e intimo pensiero che spesso travolge l'essere umano. E siccome ritengo impossibile parlarne senza esporsi, devo riconoscere questo merito alla regista, la quale esordisce con coraggio ma lascia in sospeso ogni giudizio. Questo non significa essere codardi o lanciare il sasso e nascondere la mano, no.
Miele è un film che risente parecchio dei luoghi comuni, come dicevo prima in merito al personaggio di Irene.Una cosa che io non mi spiego, ad esempio, è la ragione per cui io debba per forza associare alle protagoniste femminili del cinema italiano, la solita storiella che fa così: "amplesso in macchina - nuotata in mare o piscina - viaggio in aereo - musica alle orecchie - amante con moglie e figli - migliore amico ex ragazzo al quale si è ancora profondamente legate - finale di m***a". Gli stessi che poi per fortuna, vengono soffocati dalla grandezza scenica, in questo caso specifico, che è fisica e mentale, dell'ingegner Grimaldi, un impeccabile Carlo Cecchi. Il rapporto con questo uomo solitario e stanco della vita, annoiato, è senz'altro il punto forte dell'intero film. Perché è da questo incontro che Irene inizia a rivedere la sua vita, questo mestiere assurdo seppur necessario e fino a ieri, per lei, dignitoso. I dubbi che rimettono in discussione l'idea di "concedere" la morte a chi soffre e non ne può più. Be', è una cosa di cui andare fieri...(?)
Ma quanto costa, ai pazienti stanchi di vivere, questa "dolce morte"? Eh...mica tutti se la possono permettere, come giustamente dirà l'ingegnere a Irene. Tu sei lì e guardi i tuoi pazienti morire, anche se la macchina da presa mai ci svela il fatidico momento, e la tua sola preoccupazione è che abbiano firmato quella sorta di liberatoria che parli di suicidio e ti sollevi la coscienza. Brava!
L'ingegnere non è un paziente come gli altri. Lui è uno di quei malati immaginari, affetti da un male invisibile, scientificamente non valido. La sua noia e la sua stanchezza nei confronti della vita ci ricordano molto un grande artista morto suicida quattro anni fa, Mario Monicelli.
Per questi uomini la morte arriva, senza zucchero. Amara e silenziosa, come l'apatia e l'indifferenza per il mondo intero; un tonfo sull'asfalto e la finestra aperta di una casa ormai vuota, al quinto piano.
Nonostante il finale risulti troppo poetico e "edulcorato", questo Miele, rimane nel complesso una buona prova da regista. Prossima visione, La bella addormentata di Marco Bellocchio.
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