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Morta (come se fosse)

Creato il 19 novembre 2010 da Fabry2010

di Barbara Gozzi

La linea è libera, il cellulare squilla.
Non rispondi.
Ritento un paio di volte più per fare qualcosa che per altro.
So che non cambi idea.
Se hai deciso per il no.
È no.

***

Non c’è, punto.
E in quel momento ogni parte di te si contorce.
Magari qualche ora prima dormivi o mangiavi. Magari ridevi anche.
Poi succede. E ci resti impigliato.
Può arrivare con una precedente spossatezza.
Come con l’influenza, solo che non passa con l’aspirina.
Ti sembra di avere la febbre, le articolazioni scricchiolano, i muscoli rifiutano i movimenti più banali. È esattamente una covatura. Una preparazione silenziosa, subdola.

Mi dicesti: devo vivere come se fosse morta. Ricordi?
Come se, mi dicesti. E bevevamo caffè bollente in quel bar ridicolmente piccolo e pieno di gente. Pioveva, faceva troppo freddo per me. Ma eri tu a tremare, le tue dita sulla tazzina si muovevano a scatti. Non ti dissi niente, tu nemmeno. Sapevamo che era normale. Che era giusto così.
Era.
Morta.
Vivere-come non è vivere, Pierfrancesco. E i tuoi occhi infossati te lo raccontano ogni volta che ti guardi. Te lo volevo dire già al bar, ero pronto, avevo le argomentazioni tra le pupille gustative, le braccia tese disposte a trattenerti. Poi il casino tra noi, quel rumore bollente che fa desiderare di uscire in fretta, subito. Poi io che mi credo tanto cinico, forte, finché ti guardo e penso che mi resta il rispetto (per questo tuo dolore, so che se te lo dicessi a voce alta te ne vergogneresti, tu che hai superato un divorzio, tu per amore non devi – non devi – provare più alcun dolore, quante battute, quanti discorsi in proposito, quanto vuoto).

Ho aspettato altri dieci minuti, venti. Sono rientrato e non si vedeva granché dal finestrino, l’umidità si era condensata nel doppio vetro.

Ho quest’idea, da stamattina. Dal primo passo giù da letto.
Non credo di aver sognato, l’idea allora c’era già ieri sera.
Ti passo a prendere dopo il lavoro e ci facciamo un week end lungo. Solo noi due. Prenoto dove sai, dove andammo dopo il diploma, prima del matrimonio (il tuo), prima di ogni trasloco (i miei), prima del funerale del Geppo. Camminiamo finché non mi chiedi di avere pietà, e lo so che sei un testardo orgoglioso, tu. E c’hai il fisico. Vedrai. Ti porto anche in quella strana locanda dove il vino è quasi nero e si mangia carne fino all’una. L’ultima volta hai vinto tu, ricordi? Stavolta, chissà.

Vengo a prenderti.
Dimentico a casa il cellulare.
Al lavoro non ci sei andato.
Alessandra mi apre la porta chiedendomi di fare piano, che stai dormendo.
Io entro, mi tolgo cappotto e sciarpa, mi siedo sul divano beige. Sto zitto.
La luce della lampada a stelo colpisce una striscia di muro dietro di me, oltre s’irradia una penombra rassicurante, immobile.
Alessandra torna sul tavolo del salotto tra libri, cellulare e Ipod. Se mi guarda la nuca non me ne accorgo. Cosa fa non lo voglio sapere, non voglio darle alcun pretesto per chiedermi di andarmene anche se so che non lo farebbe (nella mia mente ce l’ho sempre in braccio, poco più grande di un gatto, con un pannolone enorme, senza capelli mi squadra facendomi il broncio)
Tu non ci sei.
Stai di là, in camera da letto.
Di rumori non se ne sentono.
Mi metto a leggere i titoli dei libri che ricoprono la parete davanti a me. Avevi detto che te ne volevi liberare. Fanno polvere, avevi detto. Invece eccoli lì.

E se poi non ti svegli?

Mi hai centrifugato fino a stordirmi. Mi hai portato a mostre e fiere improbabili. Cinema, locali, piccoli viaggi, palestre, corsi di cucina (i soli due uomini in un corso di cucina per dilettanti, se ne potrebbe parlare, magari sorridendoci come facevamo prima). Qualunque cosa pur di farmi uscire. Qualunque cosa pur di scuotermi. Ma quello ero io. Sono io che vado in letargo per congelare ogni emozione in eccesso. Poi io sapevo, cos’era successo con Martina. Sapevo esattamente che Martina ed io eravamo cadaveri assieme e non dal giorno prima. Negavo all’inizio, certo. Però sapevo. Non che sapere sia poi così utile certe volte, ma insomma.
Invece tu, Pierfrancesco, tu che non capisci, non riesci a ricomporre un puzzle frantumato (forse qualche pezzo manca, si è perso, ci hai pensato?). Tu, amico mio, che non ti concedi appoggi, non cerchi appigli: trascinati qui, accanto a me, Totò a parlare per noi dallo schermo, patatine e birra o quello che vuoi.

Mi sveglio che sono le tre. Alessandra mi ha coperto con un plaid. La casa è buia. Rintraccio cappotto e sciarpa. Apro la porta blindata e mi viene in mente che non ho disdetto la prenotazione. Sono le tre e non mi va di stare solo altrove. Torno sul divano.

«Papà dice se vi sentite nel pomeriggio, adesso si fa la doccia poi va al lavoro». È diventata così grande, Alessandra. Mi ha preparato il caffè. Ha messo in tavola croissant confezionati, fette biscottate, marmellate e frutta. Abbiamo bevuto in silenzio, riposto tazze e cucchiaini nel lavello immacolato.
Me ne sono andato alle sette col pensiero fisso a quando ti avrei chiamato. Alle due, dopo pranzo? Troppo presto.
Alle quattro, orario caffè? Di solito tu non la fai la pausa del pomeriggio.
Non ho ancora deciso.
Ma ti chiamo di sicuro, Pierfrancesco.

Spero sia morta.
Scusa se te lo dico così ma ci conto.
Che lei sia morta, per te.
E che tu ora stia elaborando il lutto.
Il tuo silenzio me lo spiego così. Alessandra resta abbottonata, finge di non sapere che suo padre s’innamora esattamente come lei, non ci sta a darti questo spazio nel suo mondo. Ma le passerà. Giorgia sai com’è fatta. Se ne sta distante, s’incasina la vita tra impegni e mestieri improbabili per non fare la ex ficcanaso. In fondo è preoccupata, a modo suo.
Dunque? È morta? O se ti manda un sms resuscita?

***

Non se lo ricordava che l’aria ha quell’odore lì.
Stretto in una giacca fin troppo autunnale Pierfrancesco fissa il cemento davanti al suo garage. L’aria è fredda, sa di buono. La notte arriva presto ormai. Il palazzo è illuminato ma restano angoli cechi dove nascondersi. Dove aspettare. Alessandra si è appena affacciata alla finestra del bagno. Gli ha urlato che la cena è pronta, cotolette alla milanese e spinaci al burro. Pierfrancesco si chiede perché si è messa a urlare, perché tutto il quartiere deve sapere che sua figlia prepara discrete cene al padre svampito. Per una manciata di secondi ha pensato di sostituire ‘svampito’ con ‘abbandonato’. Chiude il garage, gesti automatici resi bruschi da qualche moto di stizza istintiva. La cassa con sei bottiglie da un litro e mezzo pesa, se la deve trascinare fino all’ascensore, e al terzo piano dall’ascensore fino in fondo al corridoio. A Pierfrancesco non dispiace stare fuori. Gli sembra che l’aria gli apra il cervello, lo liberi dalla nebbia. Gli dispiace non poterci restare. Affretta il passo verso l’ingresso laterale, se conosce sua figlia si sta preparando al prossimo urlo pubblico dalla finestra.
I padri svampiti sono una sventura.
Le casse d’acqua un ottimo esercizio fisico pre pasto.
Gli spinaci al burro quindici minuti prima erano cubetti surgelati chiusi dentro una busta.



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