Si sa che Raymond Carver scriveva spesso di falliti. Per lui era naturale perché in fondo attorno a sé non vedeva altro. Lui stesso, alcolizzato per anni, ne era parte. E i lettori non apprezzavano sempre il loro modo rassegnato di affrontare la vita e le sue difficoltà.
Niente di nuovo sotto il sole; o forse sì?
Per secoli i falliti sono stati i protagonisti silenziosi della storia dell’umanità. L’altra storia, quella con la Esse maiuscola, non perde tempo a parlare di costoro. Cesare, Nefertiti, Napoleone e via discorrendo: ecco chi si celebra.
Adesso, o meglio da alcuni decenni, c’è un nuovo imbarazzo nei confronti dei falliti. Non è solo la loro condizione a turbarci, come è ovvio.
Siamo in una società che sogna e desidera eliminare tutto quello che impedisce lo sviluppo armonico e consapevole dell’individuo. Si dice così? E per conseguire tutto questo, e molto di più, basta volerlo.
Le librerie contengono interi scaffali con libri che aiutano l’individuo ad avere successo. Perché tutto è legato alla sua volontà.
Ma è solo la punta dell’iceberg.
Buona parte della narrativa che resta e resterà di che cosa parla? Di falliti. Di Marmelàdov ubriaconi (uno dei personaggi di Delitto e Castigo) che finiscono sotto le carrozze, quando potrebbero vivere sereni se solo lo volessero. Ma forse non lo vogliono, o non lo vogliono abbastanza.
Le persone tollerano Dostoevskij perché è dell’Ottocento, e si sa come andavano le cose allora, giusto?
Sono meno tolleranti con un Carver perché i suoi personaggi non si danno da fare. Stanno lì: bevono. E tutto quello che è incomprensibile (anormale?) ci urta perché cozza con quello che stiamo realizzando con così grande impegno e successo. Viviamo nella convinzione che basta la volontà, e tutto si risolve. Basta affrancarci dalla fame, dall’ignoranza, et voilà. Tutto sarà meraviglioso perché lo vorremo.
Il disagio che coglie le persone quando leggono determinate storie nasce perché sanno che un fallito è parte di loro. È umanità, come loro. Lo possono disprezzare, odiare e uccidere. E faranno tutte queste cose perché essi appartengono a quella condizione, anzi. Appartengono di più al fallimento, che al successo, anche se domineranno il mondo.
Flannery O’Connor diceva che in un mondo come questo, materialista, c’era sempre più spazio per un certo tipo di storie. Mi permetto solo di aggiungere che lo scontro tra una narrativa che celebra le erbacce, e il pubblico, sarà sempre più forte.