Questo racconto, del quale pubblico un frammento, è stato il primo che ho scritto, di quella raccolta che poi è diventata: “Non hai mai capito niente”. Ma non avevo alcuna idea precisa al riguardo. Non avevo intenzione di scrivere una raccolta: a un certo punto, questo tipo è apparso e io ho provato solo a rendere la sua voce la più nitida possibile.
Ho riscritto varie volte l’incipit, il finale e infine ho cambiato il titolo (e nemmeno ricordo come diavolo lo avessi intitolato prima). Anche il resto ha subito alcune modifiche, ripensamenti, riscritture e cancellazioni. Per i dialoghi uso le lineette, e per alcuni non è una scelta indovinata. Per altri, dopo la lineetta dovrebbe esserci una lettera maiuscola, o un segno di interpunzione, oppure questo segno dovrebbe essere prima della lineetta. Questioni di lana caprina? Non so. Ho fatto delle scelte, e leggendo si capiranno quali sono.
Buona lettura.
Detriti
Avevo sette, forse otto anni, quando mi assalì per la prima volta la paura della morte; fu anche l’ultima, almeno sino a ora.
Ero nel terreno di un mio zio, dalle parti di Stella. Avevo adagiato la mia bicicletta, una Ondina azzurra, contro la riva di un campo. Non ricordo i dettagli; scivolai in avanti, e colpii col collo l’estremità della manopola di plastica del manubrio. Mi alzai barcollando, senza fiato. A un centinaio di metri c’era mia sorella, impegnata a fare non so cosa, accanto a una catasta di pali. Provai a chiamarla, agitai le braccia, ma non respiravo più, e lei mi dava le spalle. Ero certo che sarei morto soffocato, invece ripresi a respirare; l’esofago, che si era chiuso a causa del colpo, tornò a dilatarsi, e io vissi.
Accadde in un giorno d’estate di venticinque anni fa, e non ne ho mai parlato con nessuno. Però ci ripenso ogni volta che mi tocca andare a un funerale.
Ero al lavoro quando Laura mi ha chiamato. Il supermercato chiude alle otto di sera; da una manciata di minuti l’ingresso era chiuso, e sentivo le casse battere gli ultimi scontrini della giornata. Saluti, voci, qualche risata. La radio passava qualcosa di Springsteen.
Non è un negozio qualunque; si tratta di una struttura commerciale riservata a baristi, albergatori, ristoratori.
A quell’ora il mio compito è pulire il piano da taglio, la macchina affettatrice, sterilizzare i coltelli, passare detergente e disinfettante su tutte le superfici, con panni specifici. Idem per l’impiantito rossiccio, e i pannelli che delimitano la zona dedicata alla vendita.
Sono il responsabile del reparto formaggi: io, e due ragazze che si alternano, una al mattino, l’altra al pomeriggio. A seconda dei turni che ho, chiusura o apertura la faccio da solo.
Ho un collega che si occupa dei salumi e della ristorazione, ma diciamo che sta per conto suo.
Squilla il cellulare:
– Pronto.
– Sei tu?
Siamo sposati da due anni, e al telefono esordisce ancora in quel modo: come se fossimo ai primi appuntamenti.
– Sì.
Laura mi spiega che è morto non so chi, uno che non conosco, però qualcuno della mia famiglia ha avuto a che fare con lui.
Dico:
– Certo – intanto passo uno straccio sui pannelli con l’aiuto di un bastone estensibile. Una volta al mese il nostro servizio di verifica sanitaria arriva, preleva campioni, analizza, e se qualcosa non va, scassa le palle.
– Come? – chiede.
– Ti ascolto, vai avanti – tengo il cellulare contro la spalla destra, la testa reclinata. Basterebbe attivare il viva-voce e poggiarlo da qualche parte; non è una conversazione importante. La vita è fatta anche di funerali di sconosciuti. Di madri che chiamano la nuora perché comunichi al figlio la buona notizia, in modo che la detonazione della rabbia non la coinvolga. Di mogli che telefonano al marito sul lavoro, così utilizza il tragitto verso casa per scaricare l’irritazione.
Mi dice:
– Tua madre vuole che ce la portiamo. Ci tiene molto.
– Non vedo l’ora.
Non hai mai capito niente. 12+1 racconti di Marco Freccero
Su UltimaBooks
Su Bookrepublic
Su Amazon