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Nuove poesie – di Daniele Gennaro

Da Fabry2010

Nuove poesie – di Daniele Gennaro

Be-bop

Prendi le mie labbra e attraversale di sogni
Sotto il parlare fitto collinare deragliato
Non le prendere con posizioni d’ancia
Ma appuntite di trumpet con sordina
Per un magico spelling: says never die.
Sotto il parlare fitto sorrisi buffi e soli
Coccinelle viaggianti ridanciane felici
Cestinate le troppe falle del giorno (un chè)
Di frequente riscontro è il dormire-sogno
Con pellegrinaggi celesti alla Mecca sbagliata
Ubriaca del sole Medina d’incastri sonori
Illuminate coriste all’Apollo di Harlem
Risollevano crepuscoli e li portano freschi
Alla notte del jazz.

Rammendi

Il rammendo è dato da una trama
e un ordito che si sono sfilati,
il rammendo è fissità di sguardo
regolarità di polso e respiro.
La menzogna è un rammendo di parole,
metaforicamente incoraggia alla fuga:
più concretamente ( la menzogna)
travalica il passo-riposo e svapora
nel nulla.
Poiché il rammendo cicatrice silenzio
poltrisce nel curiosare ozioso,
è importante prestare attenzione
al modo nel quale si dispongono i capi,
un modo sbagliato porterebbe
ad allineare le ombre lasciando vuoti,
e un buon carpentiere – esperto di vuoti-
sarebbe capace, ringraziando la sorte, di
riempire quei vuoti con contenuti che possano
dare sollievo alla noia.
Allo stesso tempo sarà cura del giovane,
che immagino stanco provato isolato da specchi,
abbandonarsi al rammendo di ricordi amorosi
chiudendo gli occhi, sospirando elettrico,
comparando la verità salvata con il domani.

Sellini da alzare

Alzati sellini di biciclette
Per bambini che crescono
Come alberi verdi gambe
Lunghe, rami nuovi, soli gialli.

Selciati ripidi attendono
Cadute fresche, occhiali rotti,
Sistemate solitudini allegre
Infischiandosene dell’inizio.

Compendio di sorrisi solforosi:
Sbeccate abitudini soffiano
Venti delicati, festosi occhi
Svendono cheeseburger,
patate western, milk shake
e hop!
Palestre colorate con quadri
Svedesi,
Arrancando foxtrot.

Astri scintillanti d’argento,
Aurore bollite, nel fosco
Mattino d’Aprile.

Occhi in Wichita Falls

Occhi per vedere altri per parlare
altri ancora per stabilire le giuste
distanze fra il venire e l’andare
altri occhi per centrare il cielo
sguardi approssimati per difetto
occhi per stelle e stelle per sbaglio
luminose di occhi allegri soli.

Occhi peruviani della provincia
di Mancora dove la selva arriva
prossima al mare occhi equatoriali
spensierati masticano foglie di coca
silenziosi occhi della parte verde
del cuore ammiraglio sospendono
la notte in note violente sotterranee.

Le cascate di Wichita sollevano
Spuma e polvere rosa teatranti
D’acqua gli scrosci improvvisi
E penombrati di grigio bianco
E nero il ritratto analogico povero
Solo di nudità intraviste con le violente
Occhiate morte della solitudine.

Prosaicamente debole il mio sorriso.

Ti ricordi come ci siamo conosciuti?
Avevi una barchetta per cappello,
un usignuolo per amico,
una delicata promessa per addio.

Con falcate di rimmel i tuoi occhi
sparivano dietro la riga nera dell’orizzonte;
ci ritrovammo così, silenziosi,
ad ammirare le propaggini rosa
del tramonto sulla baia porpora,
dove davvero barchette svaporavano
nel luccichio del sole.

Ora il treno aspetta superficiale,
sbuffante famelico di chilometri,
insofferente della pioggia battente:
prosaicamente debole il mio sorriso
volente o nolente accetta la sorte,
un diluvio di polvere nella vecchia
carrozza profumata di ferro,
fumo vecchio, particolari del dubbio,
della frenetica fatica dell’amore.

Conservo solitarie concatenazioni
di ninnoli, risposte piegate alla noia,
baldanzosi sorrisi, anelli deboli per legare
la gioia all’ipotesi sospesa di un
incerto ritorno; cosmico arrembaggio
di nuvole gialle, spiritoso legame
con l’universo tutto.
Tu sei la veloce, scorrevole voce,
erre moscia, corollario d’arte pura.

Almost blue

Ho un po’ di blu appeso qui,
sposto lo sguardo trovo libri.
La stanza silenziosa trepida,
incasello romanzi, racconti,
poesie naturalmente, tremo
dentro per tutte le parole che
ho trasformato non mie
(ho un po’ di celeste appeso qui
chiudo gli occhi respiro),
passano chiedono tempo;
polvere sposto con l’indice,
polvere fine d’alabastro nero.

Prima credevo, possedendo
ali, che tutto rientrasse, che
tutto potesse favorire il silenzio.

Poi ho guardato le tue fotografie:
come dai libri passano colori,
sviluppano serpiginose danze
dal numero imprecisato di soli,
universi sonori solcati da linee
orizzontali separati in cieli rosa
paralleli alla linea del tuo orizzonte
segreto, in fine vita flessibile e amara.

Bianco e nero

Per quanto una foto a colori possa
rendere belle le sfumature del tuo
vestito a fiori (poesia dolce sì)
nulla è in paragone alle percettibili
sovrazonali delicatezze dell’ozio dell’occhio
che distratto si incanta in un
improvviso bagliore d’inverno.

Considera il freddo, la neve che insiste
sulla capotte grigia dell’auto:
vedo il tuo viso nello specchietto
luci dietro e Senna forse
comunque fiume luminoso deambulante
d’acqua grigia spettinata instabile, vento
muove pirotecniche foglie
sugli alberi spogli.

Invece qui è caldo marrone rosso
il lato sinistro occupato da libri impilati
al centro le mie mani che costruiscono
pergolati con fili di ferro ben tesi
disarcionati rumori fatti parole
pattinando sgrammaticato nel tweed
bollente della mia giacca triste
masticata polvere di casa vuota
pellicole in bianco e nero
metà di quello che vedo
è vero.

Rosso

Tutto il pomeriggio ho pregato al rosso di tornare
Certo non mi aspettavo rotaie di fuoco né calamai
Di rame
Almeno assaporare l’ortolana freschezza del rosso
Cavolo con una grossa fetta d’oca con del rosso
Borgogna saltellante miraggio di fragole alate nel
Rosso cumulativo esserci.
Esserci sì:
Laggiù nei piccoli vividi divorzi del giorno sta il rosso
Assieme alle poesie che gironzolano per casa rosse
In precaria attesa rispettose del silenzio dell’autore
Dormicchiano nel colorado caldo sotto il termosifone.

Pur di non vederti triste

pur di non vederti triste
inventerei telegrafi stellari
con cui dirottare rapidi
i pensieri del mio sillabare basco
pur di non vederti triste sì
diventerei artigiano con luppoli dolci
armeggiare nel garage per far
la birra spumeggiante
che rallegra il cuore
pur di non vederti triste poi
lontano e vicino metterei in fretta
e furia assi chiodi alla finestra
per proteggere il tuo nido
dall’attacco degli indiani
pur di non vederti triste già
farei bucati, apretterei colletti e polsini
stirerei con devota enfasi la notte
pur di non cadere ancora
nel basculante dubbio del cosa
vale o non vale.
la botola che porta al sottotetto
aprirei con foga
getterei le tegole malate
e con tegole d’oro
ti cingerei il capo.

[Immagine: Franz Krauspenhaar - Corsa di cavalli nella foschia (particolare).]



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