Che le accuse contro i presunti silenzi di Pio XII nascondano spesso una forma di anticattolicesimo è dimostrato dall’immane polemica sorta su questo tema. All’epoca infatti, sia alcune organizzazioni internazionali come la Croce Rossa, sia capi di Stato di paesi occidentali, non denunciarono ad alta voce il genocidio ebraico, e se sono nate polemiche riguardo a questo, non hanno certamente raggiunto un livore paragonabile a quello effettuato contro Pacelli.
Eppure gli Alleati si macchiarono di politiche alquanto controverse durante la guerra. Superfluo è parlare di Stalin che verso gli ultimi anni di vita manifestò un antisemitismo che aveva poco da invidiare a quello di Hitler (esemplare è il cosiddetto “complotto dei camici bianchi”). Già durante la guerra però, il dittatore sovietico si dimostrò indifferente al loro destino: gli ebrei polacchi, che per sfuggire all’oppressione tedesca si rifugiarono nella parte della Polonia occupata dalla Russia, vennero imprigionati dalle autorità sovietiche e deportati in “insediamenti speciali”.
Anche gli angloamericani non furono però immuni da critiche. Sia l’Inghilterra che l’America chiusero le porte ai rifugiati ebrei in fuga dalla Shoah per il timore che agenti nemici potessero attraversare i confini camuffati da rifugiati ebrei (spesso la semplice nazionalità era un motivo più che sufficiente per essere visti come sospetti). Eppure la conoscenza dell’Olocausto di Churchill e Roosvelt era sicuramente maggiore di quella del Papa, per il fatto che i loro servizi segreti erano riusciti a decifrare le comunicazioni in codice delle SS.
I due leader occidentali però erano intenzionati per prima cosa a vincere la guerra, lasciando in secondo piano l’obbiettivo di fermare il genocidio. Un esempio di questo particolare atteggiamento è dato dal rifiuto di bombardare i convogli ferroviari che portavano ai campi di concentramento: gli Alleati non li distrussero perché non volevano impegnare in queste operazioni, considerate secondarie, risorse essenziali per lo sforzo bellico. Preferirono perciò bombardare le fabbriche di armi tedesche piuttosto che arrestare la macchina di sterminio degli ebrei.
Gli stessi appelli che gli Alleati fecero al pontefice per una chiara denuncia devono essere visti in questo senso: essi servivano principalmente come arma di propaganda. Pio XII dichiarò all’ambasciatore Myron Taylor, che lo sollecitava ad una pubblica denuncia dei crimini hitleriani, che non avrebbe potuto condannare le atrocità naziste senza condannare allo stesso tempo le atrocità di Stalin (cosa che Roosvelt aveva chiesto di non fare) e fece anche notare il paradosso del fatto che gli Alleati chiedevano una chiara denuncia quando loro non avevano fatto nulla di simile (Giovanni Sale, Il novecento tra genocidi, paure e speranze, Milano 2006 p. 241). Dichiarazioni esplicite che non arrivarono da Pio XII poiché, come più volte è stato sottolineato, esse avrebbero avuto la conseguenza di peggiorare, per reazione, la gravità della situazione e le condizioni degli ebrei e dei cattolici tedeschi (un assaggio di questo lo si era visto dopo la lettura nelle chiese tedesche dell’enciclica Mit brennender Sorge, fortemente anti-nazista: vennero infatti inasprite le persecuzioni contro i cattolici e deportati migliaia di sacerdoti)
Si ebbero delle critiche nell’immediato dopoguerra sul fatto che si sarebbe potuto fare di più per fermare lo sterminio, ma queste non riguardarono la Chiesa, ma i paesi Alleati. E’ emerso recentemente un documento, il “Memorandum dell’Irgum Zvai Leumi”, redatto dal gruppo sionista che operò in Palestina dal 1931 al 1948, consegnato nel 1947 all’ONU. In questo memorandum non c’è traccia di accuse alla Chiesa e nemmeno a Pio XII (neppure citato), ma si attacca in particolare modo la politica alleata, in particolare quella inglese rea, tra le altre cose, di aver sbarrato le porte della Palestina agli ebrei in fuga dall’Europa: «due mesi dopo la caduta di Praga – si legge a pagina 11 – quando è stato dato il segnale per lo stermino del nostro popolo, veniva pubblicato il “White paper” (libro bianco) annunciante lo sterminio di otto milioni di ebrei». Accuse altrettanto pesanti vennero rivolte nel documento al Gran muftì di Gerusalemme, Amin el-Husseini, che trovò accoglienza a Berlino, dove i nazisti crearono per lui uno speciale ufficio “Büro des Grossmufti” (Livio Spinelli, Nuovi documenti di Israele scagionano papa Pacelli, Zenit, 14/10/2012).
Nonostante le ambiguità, Churchill e Roosvelt sono generalmente visti in modo positivo e le loro critiche vengono generalmente giustificate da vari fattori quali la drammaticità della guerra, l’inconsapevolezza della reale dimensione dell’Olocausto fino a quasi la fine della guerra e anche perché una pubblica denuncia non sarebbe stata comunque in grado di fermare lo sterminio. Giustificazioni però che non sembrano valere per il papa, la cui mancata denuncia equivale per molti ad una prova di filonazismo.
Approccio che molti storici stanno iniziando a combattere, come per esempio, il giornalista ebreo Paolo Mieli che ha dichiarato: «Prendere per buone le accuse a Pacelli equivale a trascinare sul banco dei presunti rei con gli stessi capi d’imputazione, Roosvelt e Churchill accusandoli di non aver pronunciato parole più chiare nei confronti delle persecuzioni antisemite» (G.M. Vian, In difesa di Pio XII, Marsilio 2009). Lo stesso Mieli ha perso dei familiari nel genocidio, ma riconosce l’opera di soccorso del pontefice in favore dei perseguitati e definisce una mistificazione qualunque sua complicità con Hitler: «Io non ci sto a mettere i miei morti sul conto di una persona che non ha responsabilità» ha tenuto a precisare.