Come e perché, da tredicenne, cominciai a comprare Linus non me lo ricordo. E’ probabile che c’entrassero quelle mattine brumose e fredde, prima di entrare a scuola. Un autobus vecchiotto ci accompagnava sul tratto di strada rettilineo che separa la mia città da quella dell’entroterra, dove frequentavo una scuola d’arte; si partiva al mattino prestissimo e solo molto più tardi si faceva l’ora per entrare a scuola. Intanto andavamo in un bar dove tra gli sguardi curiosi dei primi avventori, consumavamo qualcosa di caldo. Di fianco alla caffetteria c’era una libreria/rivendita di giornali dove trascorrevo una buona parte di quelle ore. Fu lì di sicuro che comprai per la prima volta Linus. Il giornale aveva allora un odore, sapeva di carta speciale, una via di mezzo tra il non patinato e cartoncino leggero. Difficile davvero descrivere la sensazione tattile e visiva di sfogliare quelle pagine, la febbrile curiosità di accedere alle storie che vi si raccontavano, storie a volte strampalate, tenere, politiche, satiriche, storie a strisce, fumetti. Erano i Peanuts a fare gli onori di casa, poi seguiva B. C. di Hart e ancora il campagnolo finto ignorante Li’l Abner di Al Capp, marito di Daisy Mae e figlio di mamma Yokum. E non solo e non quelli. Tra le rubriche i Wutki, memorabile siparietto di Sergio Morando che si occupava di letteratura, giochi ( ! ) giochi di parole, limericks. E chi se non Oreste del Buono, Odibì come era chiamato, poteva aver voluto il giornale fatto in quel modo? Una rivista di fumetti che pubblicava, sì, storie a fumetti, ma parlava d’altro e di più. Il mitico direttore di Linus negli anni ’70 era una persona appassionata, uno che si innamorava delle novità; fu lui per primo ad interessarsi ad Andrea Pazienza e agli artisti dell’area di Bologna, grazie a lui so chi è Paz e tanto altro. Alla fine di quel decennio finì la sua collaborazione con la rivista e anch’io smisi di comprare Linus, non aveva più senso leggere qualcosa che aveva preso un’altra strada; senza Odibì Linus non era più un piacere. L’altra mattina, passando davanti ad una edicola ho visto in vetrina il numero di settembre della rivista. Accanto al titolo, con un corpo più piccolo, ma grande tanto perché potessi notarlo, c’era quel dedicato ad OdB che me l’ha fatta ricomprare. Raccontano Oreste del Buono, a dieci anni dalla morte – 30 settembre dl 2003 – sua figlia e i suoi collaboratori di allora; il direttore di Linus, deliberatamente ignorato da sempre dall”intellighenzia italiana e dai critici. Un silenzio vergognoso privo di commemorazioni, in un paese dove si commemorano anche le pietre, ha accompagnato il decennale dalla sua morte. Nel ricordo di Ranieri Polese c’è scritto:
Quando, nel 1996, si decise a raccogliere in un libro trentatré ritratti di amici & maestri ( il trentaquattresimo era dedicato all’epica rivalità tra Rizzoli e Mondadori ), Oreste del Buono diceva di assolvere un dovere nei confronti di persone della sua generazione, di quelle che avevano avuto ” la crudele ricompensa di essere dimenticate in fretta “. Non sapeva, non poteva sapere che anche a lui sarebbe toccata quella ricompensa crudele.