Me lo ha ricordato Novalis. Nel 1987, proprio oggi, moriva Primo Levi.
Passeggiavo in via Pia, Savona, non so se proprio in quella giornata; e riflettevo sulla notizia. Erano gli ultimi giorni del servizio civile, svolto presso la Caritas, in via Mistrangelo. Venti mesi che mi lasciarono senza soldi (mica facile campare con 60.000 Lire, che poi divennero 120.000 grazie all’allora Ministro della Difesa Giovanni Spadolini).
Non avevo la più pallida idea di cosa fare. Tradotto in italiano: in quei mesi ci avevo messo l’anima. Ci avevo creduto come forse mai prima di allora, e anche dopo.
E non sapevo cosa fare.
Non avevo lavoro, ma poi risolsi con quelli in nero (se non hai diplomi o lauree la salita è più dura, in questo simpatico Paese). Però la sua morte, mi fece uno strano effetto.
Forse allora iniziai a capire la forza delle parole; oppure, fu l’evento che mi interrogò più da vicino, una sorta di ennesimo, ma più robusto: “Che vogliamo fare?”.
Avevo letto da poco “I sommersi e i salvati”, e saperlo morto in quel modo (ma secondo me non è stato suicidio, si parlò anche di malore infatti), mi rese ancora più pensieroso, e lugubre. Con certi autori si crea uno strano legame; poi succede qualcosa che ti interroga. Leggevo, leggevo, leggevo: e quell’evento drammatico mi poneva una domanda. A che pro?
Sono passati tanti anni da allora; troppi probabilmente, e senza mai combinare qualcosa di decente. Lavori che non mi piacevano. Prospettive che mi spaventavano. Sono ancora qui, sempre con quella domanda: “A che pro?”, e nessuna risposta forse.
Ma credo che Primo Levi sia grande perché è riuscito, magari al di là delle sue intenzioni, a porre interrogativi persino distanti dall’Olocausto. Per indurre l’individuo a trovare un senso, ad assumersi delle responsabilità.