E’ un labirinto di passioni estreme, di temi ricorrenti (il travestitismo, la Chiesa corrotta,il machismo, il rapporto con la madre, l’omosessualità), di ribaltamenti dell’ordine che è presente (normalmente) non solo all’interno delle relazioni tra i personaggi ma anche nell’interazione tra gli stessi generi cinematografici, l’universo personalissimo che il cineasta spagnolo Pedro Almodovar Caballero (25 Settembre 1951 Ciudad Real) rappresenta sul grande schermo.
Uno sfruttatore di trame: lo si potrebbe definire in questo modo, ma non per indicare un plot usurato,o sempre uguale a sé stesso, bensi’ una trama che funge da pretesto per svelare i concetti e le idiosincrasie dei suoi film che offrono diverse chiavi di lettura.
E anche per questa caratteristica formale che Almodovar si inserisce a pieno titolo nella poetica del postmoderno; non a caso ha suscitato e suscita il massimo interesse tra i saggisti che cercano di rintracciare nelle opere filmiche del regista ,tutti i possibili collegamenti che si intersecano con i caratteri della contemporaneità e i suoi cambiamenti etici e sentimentali.
Nacque a Calzada de Calatrava, paese povero de La Mancha; a otto anni si trasferisce con la famiglia in Estremadura. Entra poi in un Collegio di Padri Salesiani, dove assisterà agli abusi da parte di questi ultimi sui suoi compagni di studio. Sconvolto da quella esperienza Almodovar si allontanerà dalla Chiesa mentre cresce sempre di più in lui il desiderio di lavorare nel cinema. Nel 1968 arriva a Madrid per realizzare il suo sogno ma non può frequentare la scuola ufficiale di Arti Cinematografiche, poiché il dittatore Franco l’aveva chiusa. Farà lavori sporadici per mantenersi : dall’ ambulante nel mercato per le pulci di El Rastro al centralinista in una compagnia telefonica. Potrà cosi comprare la tanto agognata cinepresa Super 8. Almodovar infatti studia da autodidatta, non potendo la sua famiglia concedere al giovane Pedro un’istruzione di quel tipo.
Negli anni ’70 comincia a girare dei cortometraggi con l’aiuto di alcuni suoi amici e inizia a farsi un nome nell’ambito del movimento culturale pop “LA MOVIDA” collaborando anche con varie riviste e scrivendo storie. Ed è proprio l’aggettivo pop che rappresenterà una delle peculiarità del suo cinema.
Nel 1978 dirige il suo primo film “Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio” che coinciderà con la fine della dittatura e la nascita della democrazia nonché con l’inizio del suo successo. Il trasgressivo e caotico fumetto che offre al pubblico prototipi ben chiari e riconoscili senza che ci sia bisogno di approfondimenti psicologici, fa scandalo al Festival di San Sebastian .Tuttavia inizia a regalare notorietà e successo alle attrici che diventeranno poi le dive del cinema spagnolo come Carmen Maura, Julieta Serrano e Cecilia Roth e ad evidenziare un’altra peculiarità del cinema di Almodovar: la sua straordinaria capacità di ritrattista femminile. Nella fattispecie sono donne libere, non conformiste, audaci, spregiudicate. Contemporaneamente si dedica anche alla musica rock formando un duo rock “”Almodòvar & McNamara”che lo vedrà anche nelle vesti di cantante.
Nel 1982 torna al cinema con la sgangherata commedia “Labirinto di passioni”dove i protagonisti sono tutti ossessionati dal sesso (altra tematica importante). Film kitsch(non ancora mitigato) e dimenticabile…
Seguirà l’anno successivo “L’indiscreto fascino del peccato”il grottesco melodramma che sfida il buon senso dello spettatore, rendendo l’estremo disordine e l’assurdo accettabile, attraverso quella strategia retorica tipicamente postmoderna che A. sta consolidando sempre di più.
Ma c’è spazio anche per il “nero”nel cinema del regista, sempre unito al surrealismo e al grottesco ovviamente ,con l’originale e sarcastico “Che ho fatto io per meritare questo?” del 1984; dove una madre di famiglia infelice uccide il marito manesco. Quando la quotidianità uccide, sembra quasi trasparire questo dal 4 film di A., il subire una vita monocolore, un destino avverso, e che saranno ancora più espliciti e approfonditi nei film successivi come “Tutto su mia madre”, “Parla con lei”, “Volver”, “Gli abbracci spezzati”. Dopo il fosco“Matador” del 1986 dove un ex torero uccide le sue amanti alla fine dell’amplesso, perché la cosa che più di tutte gli manca della corrida è la possibilità di uccidere, è la volta del trionfo del cattivo gusto che però diverte con “La legge del desiderio” del 1987. E’ un film che sa di confessione, di soli uomini, omosessuali, ma anche di uomini soli alle prese con la malinconia e con l’amore condito anche qui di humor nero , tipicamente ispanico; e che ha imposto A. al pubblico italiano.
1988: di nuovo un film totalmente dedicato alle donne, “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, un capolavoro di contaminazioni stilistiche, da Billy Wilder all’eleganza della tipica commedia statunitense unite al tocco inconfondibile del rockettaro cineasta che mescola abilmente farsa (A. gioca con lo spettatore attraverso la sequenza della metafora del doppiaggio, inganno del cinema e della vita) e dramma (“Non c’è nulla tra me e lui a parte il dolore”, dirà Carmen Maura, donna tradita e nevrotica).
Almodovar ritrae le donne di oggi e il loro comportamento nei confronti dell’amore e delle infedeltà, ma soprattutto l’assenza di comunicazione all’interno della coppia. A differenza del suo primo lungometraggio, qui c’è un approfondimento psicologico del personaggio attraverso analogie e verosimiglianze , attraverso l’ambiguità della vita la finzione e l’immancabile ironia.
Emerge poi dal film anche una certa concezione che A., ha della donna e del suo modo di vivere l’amore; è sempre lei a soffrire e ad andare in crisi, ma perché ama di più secondo il regista. Quando vengono lasciate non conoscono orgoglio, pudore o senso del ridicolo, difendono a tutti i costi il loro amore. Questo probabilmente può irritare lo spettatore facendolo sbottare balzando dalla sedia: “Ma queste donne non hanno dignità!”In effetti sembra proprio cosi ma in questo frangente proprio l’eccentrico ed irriverente enfant terrible A. sembra aver recepito perfettamente il valore cristiano del perdono, della non vendetta. Difficile venirne fuori da questo discorso soprattutto cristiano, sociologico, antropologico, molto soggettivo, ma di sicuro a tratti sorprendente in A.
Al contrario delle donne, vere protagoniste nel suo cinema, gli uomini, a parte qualcuno, sono meschini ed egoisti che inquinano l’universo idilliaco femminile.
Il rischio di ripiegarsi su sé stesso c’è e lo sa lo stesso Almodovar, e forse proprio per questo nel 1989 con “Legami!”il selvaggio cineasta sembra essersi “addomesticato”, l’insolenza diventa ironia brillante , lo stile si fa più maturo ed elegante, la messa in discussione della normalità si fa più forte e divertente. Ma “Legami!” è soprattutto un film sulla necessità dell’amore e la violenza dei sentimenti. Ricky un ex ragazzo affetto da disturbi mentali alla ricerca disperata della normalità(qui sta l’ironia che adopera A.)cercando di adattarsi giorno dopo giorno ad una mondo che non gli appartiene, e dell’amore che troverà senza essere ricambiato, in Marina, una pornodiva eroinomane.
Il timido e tenero ragazzo soffre e fa soffrire la donna con una convivenza forzata. Come in “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”l’uomo non è protagonista ma muove comunque l’azione provocando dolore attraverso una presenza non voluta, non scelta, mentre nel precedente film c’era l’abbandono. Con “Tacchi a spillo” del 1991, Almodovar sperimenta il melodramma, scandagliando i sentimenti e i comportamenti umani.
Protagonista due donne, madre fuggitiva e figlia immatura e complessata, legate da un morboso rapporto. Ecco riaffiorare il tema del travestitismo attraverso la figura del giudice dalla doppia vita che indaga su un omicidio.
Nel 1993, A. pare rimpiangere l’innocenza perduta che invece resta intatta nella singolare figura di Kika, nel film citazionista “Kika, un corpo in prestito”una truccatrice che vive con Ramon un fotografo di biancheria intima femminile. La donna è in contrasto con quello che la circonda e con quello che le capita, ma come tutte le “eroine”almodovariane non si perde mai d’animo. Qui non c’è complicità tra donne ma A. concede a Kika un ruolo salvifico, un potere miracoloso. Un compenso per il suo essere incontaminata oppure una logica conclusione per una ragazza di tale indole capace di donare la vita?
“Il fiore del mio segreto” nel 1995 rappresenta una svolta artistica nella carriera del cineasta spagnolo. Non più esageratamente provocatorio come agli esordi ma intimista, riflessivo, riconciliato, con accenti cattolici attraverso dualismi per quanto riguarda la concezione del dolore, della sofferenza, dell’amore, della vita. Non a caso è uno dei pochi film dove non c’è l’atto sessuale, non è ignorato ma è messo qui in secondo piano.
Non è invece messo in secondo piano nella tragicommedia noir molto fisica, dove l’eros è una forza distruttiva e, dominata cromaticamente dal rosso , “Carne tremula” del 1997 dove però, per la prima volta regista apre e chiude la vicenda con un riferimento politico : il decreto franchista che nel 1970 proclamava l’abolizione di libertà o diritti, lo stato d’emergenza su tutto il territorio nazionale; e la constatazione, come un happy-ending , che oggi, “la Spagna non ha più paura”. A. coglie l’occasione per citare(attraverso le immagini del film “Estasi di un delitto”) esplicitamente il più grande cineasta spagnolo di tutti i tempi, surreale e dissacratore Luis Bunuel, del quale proprio Pedro Almodovar è considerato degno erede.; forse meno tagliente meno sovversiva la sua visione di vita, meno antipsicologico nello sviluppare alcune storie. Stessa esperienza negativa all’interno di un collegio religioso, stesso humour nero, stesso scetticismo verso i ruoli sociali sicuri.
“La vera autenticità non sta nell’essere come si è, ma nel riuscire a somigliare il più possibile al sogno che si ha di se stessi.”E’ questa la frase simbolo del film manifesto “Tutto su mia madre” del 1999, premiato a Cannes per la miglior regia. Abbandonate, ormai frivolezze, spudoratezze, voglia di provocare e stupire a tutti i costi, il regista spagnolo approda, come lo ha definito lui stesso, ad un “cinema a cuore aperto”con un ‘opera simbolica ed utopica (si auspica che tutti gli uomini vogliano diventare delle donne) di grandissimo successo dove si alternano meravigliosamente pianto e risate, realtà e finzione. Indimenticabile la protagonista Manuela (Cecilia Roth) alla ricerca delle sue origini dopo la morte del figlio 17enne.
Nel 2002 si avvale della teatrodanza di Pina Bausch ( e del metacinema) per iniziare e concludere la favola/cronaca nera “Parla con lei”che infrange la regola per cui si crede che Almodóvar sia solo dalla parte delle donne. I protagonisti infatti sono due uomini le cui donne amate sono in coma. Ma l’infermiere Benigno, che non ha mai avuto una donna, tratta Alicia come se fosse cosciente, varcando la soglia proibita di un amore impossibile con una ragazza in coma. Non è semplice decifrare questo film per complessità della regia , sviluppo narrativo e per gli stessi accadimenti di per sé gravi ma resi con delicatezza poetica e con innesti fantasiosi, che avrebbero penalizzato fortemente qualche altro autore che non fosse stato Almodovar , che si muove tra il pudore e lo sgomento per un atto gravissimo, sebbene non violento (anche perché si vede una scena di un film muto che lascia intendere cosa è accaduto e poi lo si capirà chiaramente dall’attesa di un bambino da parte di Alicia), lasciando, infine, morire Benigno, ben consapevole, il regista, della situazione scabrosa. La scena, naturalmente, da spazio a diverse interpretazioni e chiavi di lettura.
Nel 2004 esce nelle sale il vertiginoso e tormentato “La mala educacion”, un film profondamente gay, i protagonisti principali infatti sono tutti uomini, e che appartiene alla categoria di film che sono da metabolizzare. A. ha più volte detto che non si tratta di autobiografia ma è comunque qualcosa che riguarda lui e i suoi trascorsi. Torna ad essere urticante ed eccessivo. Sarebbe ingeneroso e sbagliato dire che non si tratta di un film di buonissima fattura, ma “La cattiva educazione”( titolo da prendere alla lettera) non è un film riuscito soprattutto stilisticamente, poco fluido; sembra avere l’urgenza di riprendere tutte le tematiche della poetica d’autore , sembra dire “A che punto eravamo rimasti?” Il campionario di scene trasgressive e vojeuristiche non vanno oltre alla rappresentazione del pregiudizio/orgoglio omosessuale che si specchia su sé stesso, cadendo nell’algida autoreferenzialità. Ma forse Almodovar voleva chiudere i conti con il passato, soprattutto in riferimento alla fine della dittatura di Franco e all’improvviso assaporamento della libertà (in tutti i sensi) e di passioni, spesso disastrose portatrici di delitti e ricatti, dove i preti seducono i bambini e i ragazzi gli adulti. Denunciando gli abusi commessi dai clericali. E c’è ben poco da aggiungere quando un autore ha bisogno di esternare qualcosa di estremamente personale; il cinema è anche questo: un veicolo emozionale. Dopo questa parentesi tortuosa , finalmente torna nel 2006 con un film solare e commovente: “Volver”, “tornare” meritevole della Palma d’Oro che purtroppo non c’è stata. Incanta con le sue protagoniste femminili, solidali tra loro, piene di grazia, materne, mai immobili. Tra tutte spiccano Carmen Maura e Penelope Cruz. Un ritorno alle origini, alla Mancha e alle sue donne. Il suo capolavoro autentico.
Nel 2009 Almodovar omaggia il cinema classico, in particolare il noir americano, con “Gli abbracci spezzati” ma senza utilizzare tecniche classiche ma mixando generi non omogenei per un grande melodramma complessivo. Non è certamente il miglior Almodovar.
“La pelle che abito” del 2011 vede purtroppo un Almodovar manierista. Un esercizio di stile per una sorte di thriller/horror comico che manca di emotività e coinvolgimento. In concorso al Festival di Cannes nel 2011, molti lo hanno stroncato, trovandoci effettivamente troppe allusioni seppur pregevoli, che generano solo confusione , da Prometeo a Frankenstein.
Se Almodovar fosse un poeta, sarebbe Garcia Lorca, se fosse una musica per balletto sarebbe il Bolero di Ravel, questo per dire che la passionalità ancestrale che emerge dalla sua filmografia è davvero debordante, a tratti giustificatrice di azioni moralmente eccepibili, passionalità intesa anche e soprattutto come “pathos”unito ad una forte fascinazione dell’assurdo, a volte anche del kitsch, dell’anormale, dell’irriverente,del grottesco, dell’illogico, della frantumazione individuale e linguistica .A. mostra la potenza del cinema rendendo normale il tutto attraverso l’ironia e il sarcasmo, imponendo i suoi personaggi amorali, ma non l’amoralità:. A. non vuole infrangere le regole (come ha dichiarato lui stesso), partendo dalle dicotomie Eros/Thanatos, Corpo/Anima, Bene/Male, Sofferenza/Gioia. Non è possibile liquidare anche i film meno riusciti con poche battute, A. fa discutere, fa parlare di sé, può irritare, scandalizzare, ma di certo colpisce la nostra emotività, il nostro senso del pudore, la nostra sensibilità, la nostra curiosità per qualcosa a noi di ignoto. Ci rende ansiosi ed insoddisfatti perché siamo di fronte ad un cinema interrotto, lasciato in sospeso, inesauribile.
Almodovar si fa rappresentante di un cinema-magma, tra donne che spesso si comportano come uomini e che il regista deride, desideri sessuali senza preamboli ma subitanei e pericolosi,habitat che diventano una cosa solo con i personaggi come se ne fossero assorbiti e viceversa, mutamenti sociali, citazioni pubblicitarie, nel migliore dei romanzi popolari picareschi.
Non si fa un torto al vivace regista dagli occhi buoni se si afferma che i suoi film hanno riscontrato maggior successo e affezione, sia di pubblico che di critica , nel secondo periodo della sua produzione, ,quando sono diventati più teneri e amorosi, più dolci ma anche più dolorosi, più maturi.
di Annalina Grasso