Per Pascal infatti: “democrazia: non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto”.
Lasciando lo scettro dell’antipolitica avanzante a coloro che magari, fino all’altro ieri, osannavano invece i partiti nella speranza di un potenziale beneficio (l’astensione sarebbe sì un’assenza di potere politico, ma nell’incapacità di sistemare gli amici degli amici), proveremo qui ad allargare un po’ il campo di gioco, convinti che sia più facile raccontare il popolo “liberato” piuttosto che il suo “liberatore”.
Il Pdl,
qualche merito bisognerà pur riconoscerglielo, non è un partito. Un partito,
essendo una parte che si arroga il diritto di legiferare per la totalità del
popolo è, a ben vedere, già una tangibile rappresentazione antidemocratica…
infatti si ritorna, coerentemente alla propria mission "aziendale", a Forza Italia.
Una fazione politica quindi, come ogni pezzo che si propone l'obiettivo d’essere un
“tutto”, è in definitiva esclusivamente abnegazione. Una rinuncia di sé, i più
bravi direbbero per spirito di servizio o per generosità, in virtù di un ideale
superiore, in favore di un’umanità che trascenda la singolarità. In definitiva,
l’impegno di un disimpegno che vuol prendere “parte” alla gestione della polis
per non scoprirsi infine incapace di gestire anzitutto sé stesso. L’uomo
politico di ogni risma preferisce quindi credere, per conservarsi in
quell’unico ruolo che ha saputo ritagliarsi, che sia più semplice cambiare il
mondo piuttosto che intervenire direttamente su sé stessi.
Quell'omnibus mondano non può che essere allora quello democratico, ove per ottenere il potere
bisogna fare i conti col popolo sovrano, per dirla con Mirabeau: “il popolo
è la sorgente di ogni potere”. In tal caso il compianto Pdl, più di tutti,
è riuscito suo malgrado a smascherare, per ridicolo, il diffuso pregiudizio
posto alla base di ogni collettività. E’ riuscito insomma a far passare l’idea,
quasi fosse una normale abitudine, che il potere, traslando ancora il motto di
Mirabeau, non risieda nel popolo, bensì nella capacità del capo tribù
d’intercettarne gli umori e i bisogni, le aspettative e le illusioni.
Ogni
partito pare quindi essere, in estrema sintesi, la stessa quintessenza della
democrazia: pagare qualcuno perché ci comandi nel nome di noi stessi, del
popolo o del bene comune, come sentenziò Necker pochi anni dopo la
Rivoluzione francese: “dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di
riflessione”.
Detto
alla spicciolata, libertà significa semplicemente che si vuol credere ad un deus
ex machina onnipotente e provvidenziale che sollevi il popolo dalle proprie
responsabilità (il cittadino, come le cronache ci raccontano, sembra non riuscire
a far altro che chiedere risposte preconfezionate allo Stato, a nessuno di loro
passa nemmeno per la testa di cominciare, faticosamente, a darsele da sé quelle
benedette sentenze). Come affermava infatti Bernard Shaw: “la libertà
significa responsabilità: ecco perché molti la temono”. Ma la libertà per
un “popolo” siffatto si riduce semplicemente ad una “patata bollente” da passare
alla svelta a qualcun altro.
Sostenere
colui che può di rimando sostentare il proprio tornaconto singolare, sceglierlo
democraticamente in ragione di una presupposta virtù nobilitante, quella della res
publica - non è questo, in fondo, l’autentico camuffamento di un egoismo
straccione che non sa cosa farsene del proprio ego, non riuscendo a sbrigarsela
con sé stesso? –
Berlusconi,
in tal senso, è assolutamente un “buon partito”!






