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Perché gli scrittori scrivono di poveracci?

Creato il 27 agosto 2012 da Marcofre

Soprattutto negli ultimi 40/50 anni si è reso necessario disinnescare la mina vagante che rischia sempre di esplodere (di fatto accade, ma coinvolge poche persone). Cioè il potere destabilizzante di un Caravaggio, o di un Dostoevskij. Quando parlo di “potere destabilizzante” non intendo riferirmi alla forza eversiva delle loro opere, perché non mi risulta che ci siano mai state delle sommosse dopo la lettura de “L’idiota”.

Non si tratta affatto di opere capaci di mettere in pericolo l’ordine pubblico, vero?

Falso.

Qualunque civiltà tende a omologare: in più gli esseri umani sono tagliati per il conformismo. Rispetto alla piccola civiltà degli indigeni che vivono nella foresta dell’Amazzonia, noi da decenni abbiamo gli strumenti per rendere questo conformismo meno soffocante. Ma (qui mi tocca di nuovo citare il buon Fedor Dostoevskij) c’è un altro problema: non desideriamo la libertà.

Buona parte di noi vive in un colossale supermercato che per convenzione chiama “Vita”.
I più arditi fanno precedere un aggettivo possessivo al sostantivo: “La mia vita!”
No: è solo un supermercato, e hai diritto di starci solo se compri. Altrimenti, sul retro c’è il compattatore scarrabile per i rifiuti.

Per garantire la serenità del supermercato, è indispensabile eliminare qualunque spiraglio che possa lasciar intendere l’inganno. È tutto qui, si dice: scaffali e prodotti. Prodotti e scaffali. Tutto quelle che serve, a portata di mano; il paradiso in terra, purché si abbiano i soldi per acquistarlo, certo!

Una delle ragioni che spingono gli autori ad affrontare sempre personaggi ai margini, a celebrare le erbacce come dico io, è che costoro hanno conosciuto la verità. Per una ragione o per l’altra, sono finiti nel compattatore. A volte per colpe loro, altre per responsabilità altrui. L’autore “ricorre” a costoro non per il gusto di guastare la bella festicciola organizzata dentro il supermercato. O per scandalizzare (d’accordo: a volte anche per questo).

Questi personaggi sono una specie di “portale” che aiuta a vedere il livello inferiore, quello che secondo la logica che ha edificato il supermercato, non esiste. Il potere destabilizzante di certe opere è minimo in apparenza, eppure è capace di deflagrare perché rovescia un intero sistema.

La soluzione per la logica del supermercato, è svuotare la cultura, renderla un prodotto come un altro. Spiegare ed educare i clienti che non c’è nessuna rivelazione se si contempla un Caravaggio: basta dire che è “bello”. Quello sì e non si può certo negarlo; anche chi ignora l’arte non può che restare affascinato da certi dipinti. Ma perché è bello? Cosa lo rende così? Quale era il mondo che il pittore conosceva? I suoi punti di riferimenti, i suoi miti? È solo una questione di ombre, luci, colori, sfumature: oppure quelle parlano di altro, aprono un varco che è una via di fuga verso un’altra dimensione dove ci sono anche dei beni?

È importante per il supermercato presentare l’opera d’arte come una specie di monolite isolato, un blocco a sé stante: un dono piombato sulla Terra da un’altra dimensione. Non è mai così: l’autore dialoga, si interroga e interroga, va alla ricerca del senso di quello che vede, e di quello che la realtà gli nasconde; e proprio per rendere nitido l’intangibile, usa elementi molto concreti. Però questo dramma interno non deve essere mai mostrato ai clienti, perché potrebbe confonderli. Generare dei dubbi.

Se Dostoevskij è “ferito” dalla bellezza del Cristo, e deve scrivere “L’idiota”, allora… Dietro a quel romanzo si nasconde un percorso che parte dalla contemplazione della realtà russa, ma riesce a immergersi oltre le forme, le apparenze per dimostrare che al di sotto di quello strato superficiale esiste qualcos’altro.


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