Pubblicato da robertorossitesta su maggio 29, 2012
Un amico ha scavalcato la ringhiera e si è buttato di sotto. Era vecchio, malato, e ormai da un pezzo comunicava col mondo ancora peggio di quanto fosse riuscito a fare in precedenza. Non ci sarebbe molto da dire, se non invocare pace e pietà per chi parte e chi resta.
Invece, subito recatomi dai parenti alla notizia, mi ritrovo nel mezzo di un talk-show. Capannelli di persone disputano di qualsiasi cosa, soprattutto di “scelte” e dell’uomo che sarebbe “artefice del proprio destino”.
Io non ho una vera fede in nulla, riguardo a quella in Dio mi limito a non strozzare con le mie mani quel po’ di speranza che sento, che già respira tanto a fatica; e pazienza se fosse proprio lei, come dicono, a far respirare male me. Ma soprattutto non ho fede nell’uomo, pertanto passo dall’uno all’altro cercando di spiegare la differenza che vedo tra un poveretto tenuto comunque alla responsabilità e “un artefice del proprio destino”; verosimilmente luminoso quest’ultimo, fosse pure della luce degli scoppi.
Esco tuttavia da quella casa portandomi in tasca un piccolo seme di fiducia, il pensiero di quel figlio che per più di due ore non ha detto una sola parola, ma il cui viso parlava. Immediatamente però riprecipito nella desolazione: le strade sono in subbuglio, la maggiore squadra cittadina, proprietà (per farla corta lasciando perdere le scatole cinesi) dell’ex grande industria automobilistica nata nella città medesima ha vinto lo scudetto, e gli ex lavoratori fanno festa come fosse cosa loro.
Non posso fare a meno di chiudere la giornata col seguente pensiero: non è vero che non esistono fatti ma solo interpretazioni; anzi, le interpretazioni stesse sono fatti, fatti grandi talvolta, perlopiù fatterelli: dei sacchetti di sabbia che ammucchiamo contro le piene che immancabilmente ci travolgono; sicché, se non si muore affogati, si muore colpiti dai mattoni delle nostre fortezze, trasformati in proiettili.





