In questa giornata di sole immeritato dominano diverse considerazioni sulla precedente, su come sia stato possibile, su di chi sia la colpa, su cosa succederà adesso. Naturalmente nessuno ha tutte le risposte a questi interrogativi. Ci sono, però, dei fatti acclarati: il Pd ha fatto peggio di quanto fatto segnare durante la gestione Veltroni, alle elezioni del 2008; il Pdl ha retto, confermando il recupero anticipato dai sondaggi; Beppe Grillo ha conquistato oltre il 25% delle preferenze alla Camera e guida di fatto il primo partito italiano.
Accusare le scelte altrui ex-post è inutile, oltre che opinabile a livello di stile: i conti vanno fatti in casa in propria, per riflettere su cosa si è fatto e su cosa si poteva fare. Il Pdl ha perso quasi la metà dei suoi voti del 2008, pagando dazio per gli scandali e la mancanza di credibilità della sua coalizione, ma è ancora a ridosso dei primi partiti. Cosa avrebbe spinto un italiano a dare ancora la sua fiducia a Silvio Berlusconi?
La domanda è lecita, ma proviamo a farne una inversa e ugualmente interessante: cosa ha spinto gli italiani a non votare il Partito Democratico? La mia personale risposta è la vaghezza dei suoi toni nella campagna elettorale, il ricorso a un antiberlusconismo ormai arrugginito e l’incapacità di presentarsi come un partito innovatore, oltre ad una strategia comunicativa ai limiti del folle, a tratti.
Resta da vedere – e bisogna chiederselo seriamente, a conti fatti – se il Pd è o non è un partito innovatore, nell’accezione più politica del termine. La sua offerta appare vaga, cerchiobottista e scaduta. Il suo riempirsi di nemici e i continui tentativi di mettere paletti ad un’identità confusionaria e para-ideologica fanno il resto.
Quello di cui ha bisogno il paese, ora, è un partito capace di superare le divisioni, anziché crearne una nuova ogni giorno. Ammettendo di non voler più vedere governi Berlusconi, bisogna comunicare a quelli che li hanno votati e che, salvo nuove proposte, continuerebbero a farlo. I loro voti contano e possono essere conquistati – come ha dimostrato il Movimento 5 Stelle – solo sacrificando i crismi del bipolarismo a offerte magari populiste, ma innanzitutto alternative e credibili sotto il profilo della leadership.
L’alternativa di cui il Pd – e, per osmosi, il paese – ha disperata necessità, in questo preciso momento, si chiama Matteo Renzi e fa il sindaco di Firenze. Renzi ha perso le primarie del suo partito, ha detto “ho sbagliato io” e si è rimesso al volere di un gruppo dirigente che l’ha affossato lentamente, dopo averlo bollato come intruso “berlusconiano”, di quelli al di là della staccionata.
L’hanno sostenuto tante persone di intelligenza apprezzabile, in quest’ultimo periodo: per fare politica bisogna rompere questo corporativismo esasperato, questa tradizione masochista di guelfi e ghibellini che non può che peggiorare una situazione già precaria e destinata a richiedere ulteriori sforzi condivisi.
A differenza del suo avversario alle primarie, Bersani da ieri non è ancora apparso a parlare in pubblico – lo farà a breve, ma sarà passata quasi una giornata dallo scrutinio – e la dirigenza del partito non intende ammettere l’enorme e imprevista sconfitta. Il Pd ha vinto alla Camera, ha mantenuto il suo zoccolo duro di voti, non ha rischiato di contaminare o sminuire la sua base ideologica e i fardelli ad essa legati. Ha perso tre milioni e mezzo di voti da quella che era considerata la peggiore débâcle dello scorso decennio, riesumando di fatto il peggior politico della storia italiana.
Scommettiamo, però, che Pierluigi Bersani, nel suo dignitoso silenzio, rimane intento a fumare il suo sigaro e parlare di vittorie. Dicendola con Gaber, qualcuno era bersaniano perché pensava che le elezioni si vincessero mostrandosi più puri e più identitari. Oggi non è più così, e forse sarebbe ora di rifletterci su.
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