I sindacati, questi strani personaggi “in cerca di autore” (come direbbe Pirandello), dalle molte personalità altalenati e contraddittorie, avevano ragione d’esistere nei lontani anni ’70. Anni difficili in cui c’era scarsa tutela verso i lavoratori in genere e, in particolare, per quelli vessati, maltrattati, sfruttati (quello che oggi si chiama – più modernamente parlando – “mobbing”). Davano il loro pregevole contributo agli aumenti contrattuali, lottavano con le unghie e con i denti a difesa dei lavoratori, si davano un gran da fare per tutti quei diritti che venivano spesso calpestati o del tutto ignorati.
C’è da dire però che loro – i dirigenti sindacali – erano anche persone con le palle. Gente con un bagaglio culturale di un certo spessore e/o che veniva dal lavoro di fabbrica, che viveva sul campo le difficoltà di ogni giorno; gente che “capiva” e “sapeva” il mondo difficile del lavoro subordinato. Gente insomma che aveva a cuore per davvero l’avvenire e la sicurezza economico-lavorativa del lavoratore.
Passato remoto. Oggi le cose sono diverse, tanto che è legittima una domanda: chi sono e cosa sono i sindacati nel 2012? Cosa sono diventati veramente? Cosa fanno?
Ormai nelle aziende comandano loro. Decidono loro, ma solo fin quando fa comodo a loro (e cioè per attribuirsi i meriti, mai però i demeriti, sempre lasciati all’imprenditore). Si rubano iscritti tra una firma sindacale e l’altra: “Vuoi l’aumento? Ci penso io, iscriviti al mio sindacato”. Si fanno guerra, sputtanandosi tra di loro, per far vedere al (povero) lavoratore che il sindacato A è sicuramente migliore di B. La sostanza (triste) è che a conti fatti ad A e B del lavoratore non gliene frega proprio un bel niente.
Prendiamo un esempio lampante attuale: la lunga ed infinita storia delle lotte sindacali in quel colabrodo di azienda che è la FIAT . È di questi giorni infatti l’ennesima vittoria della FIOM – CGIL sul fronte sindacale: 145 lavoratori con la tessera del sindacato dei metalmeccanici dovranno essere riassunti nella fabbrica di Pomigliano. Il motivo è presto detto: il sindacato rosso, all’indomani dell’accordo su Pomigliano, ha fatto causa all’azienda automobilistica sulla base di una normativa specifica del 2003 che recepisce direttive europee sulle discriminazioni. Alla data della costituzione in giudizio su 2.093 assunti da Fabbrica Italia Pomigliano nessuno risultava iscritto alla Fiom. In base a una simulazione statistica affidata a un professore di Birmingham le possibilità che ciò accadesse casualmente risultavano meno di una su dieci milioni. Perciò, su questa base, il giudice chiamato a decidere ha ordinato l’assunzione degli operai tesserati alla FIOM, in quanto la loro mancata assunzione è da considerarsi discriminatoria.
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Davvero un bel principio che denota un piccolo ma non trascurabile particolare (guarda caso sfacciatamente omesso): la sigla FIOM – come è nel suo diritto – non aveva firmato a suo tempo gli accordi con l’azienda, quindi, di fatto, aveva rifiutato un contratto sottoscritto dalla maggioranza dei lavoratori. Salvo poi fare marcia indietro, solo quando si è accorta che questa firma mancata aveva fatto perdere il lavoro a 145 lavoratori. Un errore davvero grossolano che meritava di essere sanzionato dai lavoratori.
E invece che cosa ha fatto il sindacato “senza vergogna”? Furbescamente ha deciso di far valere le proprie discutibili ragioni nella sede più “rossa” d’Italia: l’aula di un tribunale del lavoro. E guarda caso, quell’aula gli ha dato irragionevolmente ragione.
Questo episodio richiama pure il caso Alitalia dove ci mancò poco che il sindacato rosso — piuttosto che ritenere ragionevole aderire alla proposta di riduzione del personale in esubero — facesse fallire tutta l’azienda!
Gli anzidetti episodi, oltre che essere l’ennesima dimostrazione di come e quanto la rappresentanza sindacale rossa sia un centro di potere che non cura gli interessi dei lavoratori (altrimenti non metterebbe a rischio di chiusura le aziende e/o gli impianti produttivi), evidenziano l’inevitabile natura di casta del sindacato: un fenomeno ipocrita che ritiene sia meglio un’azienda chiusa che un’azienda che dia lavoro, ma dove non possa esercitare il proprio potere e la propria influenza.
A questo punto verrebbe veramente da chiedersi chi sfrutta di più i lavoratori? Le aziende o i sindacati, per i quali i lavoratori sono solo le “tessere” di un mosaico sparso a cui far pagare la tassa mensile di “assistenza”? L’assistenza per cosa, poi? Per quegli attriti e disordini che sono (spesso) creati dagli stessi sindacati?
Sotto questo profilo, è pertanto condannabile ogni condotta della FIOM – CGIL volta ad affossare le aziende per mantenere (e consolidare) il proprio potere e la propria influenza sul mondo dei lavoratori, anche quando l’economia italiana va letteralmente a puttane e sono necessarie politiche meno ancorate alle ideologie passate.
Sarà molto interessante vedere come reagiranno codesti sindacati quando dovranno spiegare ai disoccupati che loro si sono impegnati per 145 posti ma, contemporaneamente, ne hanno fatti perdere migliaia con la Fiat che, probabilmente, se ne andrà all’estero. Vorrò proprio vederli che scusa accamperanno quando Marchionne o chi per lui farà “ciao ciao” con la manina all’Italia e ai suoi sindacati anacronistici più affascinati dal potere politico che dediti alla reale e concreta tutela dei lavoratori.