Come si scrive una storia? O meglio: in quale maniera si costruisce?
Nella mia limitata esperienza, mi sono trovato ad avere a che fare con editori (pochi a dire la verità) che hanno letto quello che io scribacchiavo. Qui mi riferisco alla Fase Due.
La Fase Uno si è chiusa attorno al 2003, la Due ha preso avvio nel 2009 con i medesimi risultati modesti, ma lasciamo perdere.
Prendiamo in esame quest’ultima allora.
Le storie possono essere scritte bene. I dialoghi risultare efficaci, e la descrizione dei personaggi, dei luoghi, convincenti. Però non basta: ricorda, devi scrivere una storia.
Se dopo un incipit magari interessante, la storia scivola verso una conclusione quasi suggerita se non apertamente “evocata”, c’è un problema. È il caso della storia col pilota automatico: l’autore lo ha inserito e se ne andato a preparare un caffè, oppure una passeggiata a Naso di Gatto. E il lettore farà lo stesso, almeno quello bravo, seguito a ruota dall’editore.
Di solito chi scrive a questo punto se la prende con l’editore, poiché dalla sua ha l’opinione dei lettori che hanno trovato la storia buona. Magari non sono neppure parenti o amici, quindi sulla bontà del loro giudizio non c’è da dubitare.
Purtroppo, ha ragione l’editore. La storia segue uno schema prevedibile, e se per molti va bene comunque, non è sufficiente per chi in un autore deve investire dei soldi.
Che fare?
Investire in quello che di buono c’è e si salva. Quindi indossare la tuta e scendere in officina.
Ho imparato che l’intreccio, nel senso di costruire un meccanismo in grado di svelare che cosa sta succedendo, conservando alta l’attenzione e la tensione del lettore, non fa per me. Almeno per ora. Quindi gialli, intrighi sono faccende che è meglio lasciar perdere. Non credo sia possibile scrivere di tutto.
Un buon metodo per uscire dal vicolo, e imparare a scrivere una storia, è leggere quelle scritte dagli autori che restano. Ma con un occhio differente, perché desideriamo imparare, non solo leggere.
Se prendiamo a esempio “Greenleaf” di Flannery O’Connor non abbiamo nulla di straordinario. Un toro vagabondo che si infila in una proprietà, la signora May che in quella proprietà ci vive e il suo fattore scansafatiche. Non sembra nemmeno una storia, tanto sembra banale. Ma non c’è niente di banale se si ha la capacità di vedere oltre la superficie.
E quando nelle ultime righe di questo racconto il toro si dirige ancheggiando verso la signora May, il lettore trattiene il respiro, comprende che probabilmente non poteva che chiudersi in quella maniera, eppure ogni elemento è perfetto, ed efficace.
Idem per il racconto “La casa di Chef” di Raymond Carver. Qui c’è ancora di meno. Una coppia di alcolizzati che prova a rimettersi assieme in una casa in affitto per lasciarsi alle spalle liti e bottiglie. Siamo alle prese con una storia ordinaria eppure funzionante.
Come si costruisce allora un buon motore? Ci penserò…