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Quando la testa è in vacanza [2]. “Il circo delle anime”: l’anima europea di George Pelecanos

Creato il 21 luglio 2010 da Fabry2010

Quando la testa è in vacanza [2]. “Il circo delle anime”: l’anima europea di George Pelecanos Una delle strip-recensioni riportate in quarta di copertina scomoda addirittura Zola. Un po’ azzardato, l’accostamento, tuttavia è indubbio che Pelecanos emerga tra i c.d. maestri americani del thriller (escluso l’hors categorie S. King) per il sovrapporre a ritmi e plot tipicamente yankee una visione e una sensibilità più “europee”.
Che ciò sia dovuto alle origini, di famiglia greca, o alla bio che lo vede partente dal basso (ha lavorato come cuoco, lavapiatti, barista, venditore di scarpe e muratore prima di pubblicare il suo primo romanzo nel 1992), o più semplicemente al talento naturale, poco importa. Comunque esco dalla lettura di Pelecanos senza il retrogusto da preparato chimico che ti lascia la gran parte della contemporanea produzione giallistica/thrilleristica/noiristica.
Il circo delle anime è ambientato ad Anacostia, il quartiere più malfamato di Washington D.C., dove Pelecanos ci accompagna a seguire le vicende di Derek Strange e la sua agenzia investigativa. Non il solito nipotino del Marlowe chandleriano, piuttosto una figura che mi ricorda l’investigatore Jelling di Scerbanenco, dai modi un po’ goffi, ma dal cervello affilato come un rasoio.
L’innesco della trama è fornito dal nuovo cliente di Strange, tale Granville Oliver, noto spacciatore e capobastone della zona, incarcerato con l’accusa di omicidio e autorevole candidato alla sedia elettrica. Salvami, implora Granville, mi hanno incastrato, mi accusano di un delitto ingiustamente, tutto per colpa del mio ex socio in affari, che comanda le gang di Anacostia pure dal carcere.
Strange accetta l’incarico e si mette a scandagliare l’intricata rete di ricatti ed omertà che sta dietro al delitto. Dalla storia principale si dipanano poi altri rivoli di storie secondarie, tutte a confluire in quell’unica corrente che conduce i protagonisti a spingersi fin nei recessi più pericolosi del quartiere.
Del resto lo sviluppo della trama, pur essendo ben congegnato, a mio parere non è l’elemento di maggior pregio del romanzo. Quello che mi ha stupito è la capacità dell’autore di cambiare continuamente il registro della narrazione, passando da situazioni opposte senza una sbavatura, da una tranquilla scena di vita familiare a una sparatoria o a un pestaggio a morte.
E’ anche per questo che parlo di anima europea dell’autore, a distinguerlo da molti suoi colleghi americani, probabilmente per quello sguardo neutro sulla violenza, sul degrado che è l’elemento fondate di questa hell’s kitchen al cubo che è la periferia di Washington. Sguardo neutro non significa neutrale. Non c’è rassegnazione di fronte al sovrastare del male, ma neppure il moralismo di facciata da reverendo yankee. Pelecanos coglie nel segno nel lasciar parlare le cose come succedono nella suburbia dei neri in cui si sviluppano le vicende del romanzo.
Ricavo poi una sensazione, soggettiva e indimostrabile, dalla lettura di questo romanzo. Consiste nella differenza tra chi si è documentato bene e chi invece ha vissuto una certa situazione in prima persona. E Pelecanos, a intuito, lo colloco in quest’ultimo gruppo. Per dire, quando descrive la tana di una delle gang di spacciatori, con i pacchi di droga sigillati e nascosti sul fondo di una vasca colma di piscio e merda, hai la sensazione che in un posto del genere l’autore ci sia veramente passato. Come quando descrive le trattative per l’acquisto delle armi, o il modo stesso di usare una certa pistola, il metodo di controllo di una strada piuttosto che un colloquio in carcere. Tutto senza una sbavatura.
Unico neo, la terrificante battuta con cui si chiude il romanzo, del tutto distonica rispetto al registro della narrazione (ci sarà mica lo zampino del traduttore?).
-C’è solo una regola- [dice Strange a un suo collaboratore che vuol conoscere i segreti del mestiere.]
-Solo una?
Strange annuì. –L’ultimo che rimane in piedi ha vinto.-
Caspita, quella frasetta la diceva un mio compagno fessacchiotto del liceo, sfidava i bulletti del paese sibilando : -Facciamo a chi rimane in piedi?-. Se quelli lo prendevano in parola, scappava a gambe levate.
Come riportare Pelecanos sulla terra.



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