Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha sollevato, nel tardo pomeriggio del 12 giugno (e sedicesimo giorno di interminabili proteste), la possibilità di sottoporre a referendum la questione della demolizione degli alberi di parco Gezi a Istanbul.
Il portavoce del partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) Huseyin Celik ha annunciato alla stampa la possibilità di aprire un tavolo di trattative e inidre un referendum nel comune di Istanbul.
Dopo quattro ore e quarantacinque di meeting ininterrotto tenutosi questo pomeriggio con il primo ministro Erdogan, i ministri di partito e una delegazione di undici rappresentanti di Occupy Gezi, il referendum sembra rappresentare una delle strade percorribili per porre fine allo stallo delle proteste. All’incontro, che si è tenuto presso la sede del partito AKP ad Ankara, hanno partecipato tra gli altri, il ministro dell’interno Muammer Güler, il ministro dell’urbanistica e dell’ambiente Erdogan Bayraktar, il ministro della cultura e del turismo Ömer Çelik e il portavoce di partito Hüseyin Celik. Prima di questo incontro, il PM aveva convocato il comitato esecutivo centrale (MYK) del suo partito per discutere sullo status quo delle proteste.
Il portavoce Celik sottolinea due punti salienti, riguardanti sia l’ampiezza elettorale sia quella tematica. Anzitutto si tratterebbe di un referendum locale e non nazionale, dunque chiamerebbe in raccolta alle urne i soli residenti nel comune di Istanbul, e non anche quelli delle altre province turche, teatro delle proteste. Inoltre, oggetto di referendum sarebbe la sola riconversione del parco-icona Gezi nell’antica caserma di artiglieria-centro commerciale e non anche la demolizione del Centro culturale Ataturk (AKM), struttura definita pericolante nell’eventualità di terremoto.
Durante la conferenza stampa con il vice premier Celik, sono state riportate le dichiarazioni del primo ministro Erdogan, il quale ha esordito con un “No alla violenza”, e si è dichiarato aperto al dialogo e alle esigenze legittime del popolo. Il premier ha poi espresso rammarico per l’eccessivo utilizzo della forza da parte della polizia civile e dei gruppi di “malintenzionati”, i quali avrebbero rovinato lo spirito di una manifestazione pacifica nata nel nome di una sentita “coscienza ambientale”. L’immagine internazionale della Turchia, deteriorata da un gruppo di provocatori connessi ad “organizzazioni illegali”, deve essere ridisegnata – secondo il primo ministro- nei confini delle istituzioni democratiche, dando voce a quella parte di popolazione che ha espresso un forte spirito verde e ambientalista nel cuore di Istanbul. E infine afferma, come riportato dal portavoce Celik:
La Turchia non è una dittatura. Le azioni delle ultime due settimane sono paragonabili alle proteste contro il G8 a Londra e a quelle ambientaliste di Wall Street. Non meritiamo la percezione creata dai media internazionali. Nessuno deve spruzzare o respirare gas, nessuno deve passare notti insonni per le pentole e padelle suonate sulle ringhiere di balconi, nessuno deve bloccare il traffico. Mi rivolgo ai miei giovani fratelli che dimostrano, bevono, mangiano e dormono nel parco Gezi da due settimane: poiché la decisione sul referendum non è ancora definitiva, vi invito a svuotare il parco, ponendo fine alle manifestazioni, nell’intento di riportare il corso degli eventi alla normalità.
I toni del primo ministro sono notevolmente cambiati da quelli del non lontano 11 giugno, quando un “No alla tolleranza” era stato urlato a gran voce durante la conferenza stampa con il giornale Hurriyet. Un giorno fa il PM Erdogan parlava di gruppi “marginali”, di pugno di ferro, di un complotto del CHP (partito repubblicano di opposizione), ai danni della democrazia e della repubblica.
L’11 giugno (sempre un giorno fa), piazza Taksim è stata teatro di scontri per dodici ininterrotte ore, a partire dalle 6:15 di mattina, quando undici autobus delle forze civili antisommossa si sono schierate di fronte allo stadio Inonu. Nonostante il comunicato su Twitter del governatore di Istanbul Huseyin Avni Mutlu, il quale rassicurava i protestanti sul non utilizzo della forza da parte della polizia (obiettivo della quale sarebbe stato solo quello di rimuovere le barricate nella piazza e gli slogan affissi alla statua di Ataturk e alle pareti del Centro Culturale Ataturk), piazza Taksim è stata ancora una volta centro nevralgico di scontri. Ai cannoni ad acqua lanciati dalle TOMA (camion blindati della polizia), ai gas lacrimogeni, alle bombe sonore, e agli spray al peperoncino, si sono aggiunte le bombe molotov lanciate attraverso le barricate alla polizia (utilizzate per la prima volta, dopo 15 giorni di scontri). Sul web e sui social media si parlava di complotti, di polizia infiltrata tra i manifestanti e di gruppi politici estremisti che tentavano di rovinare lo spirito pacifico delle manifestazioni. Alcuni Twitter parlavano di vera e propria “strategia della tensione”, nell’ottica del “dividi et impera“.
Il bilancio della notte tra l’11 e il 12 giugno, secondo i dati del giornale Radikal: 14 persone hanno riportato trauma cranici, 11 persone fratture, 7 persone hanno sofferto di attacchi d’asma, 1 persona ha avuto un attacco epilettico, 1 persona ha riportato la rottura di un tendine, un giornalista straniero è stato picchiato, 340 persone sono state colpite dal gas.
Inoltre, lo stesso giorno 70 avvocati sono stati arrestati e trasportati fisicamente dalla Corte di Istanbul al commissariato. Il mandante: difesa volontaria di gruppi ribelli. Centinaia di avvocati hanno sfilato oggi sulla Kibris Sehitleri Avenue di Izmir, in supporto ai loro colleghi, chiedendo le dimissioni del governo.
Una vera e propria guerra civile.
Nel frattempo il parco Gezi si è trasformato da 606 alberi ad ambulatorio improvvisato di emergenza per feriti, area pacifica all’interno della quale le parole d’ordine sono: no alla violenza, no alle provocazioni, si alla resistenza.
La situazione è dunque divisa: parco Gezi, occupazione pacifica e piazza Taksim, schieramento contro le forze dell’ordine, gas e provocatori. Gruppi marginali ci sono, come pure ci sono gruppi radicali che strumentalizzano le rivolte per esprimere frustrazioni che vanno al di là dei motivi che le hanno generate.
Ma tornando tra i gruppi pacifisti, quelli del parco Gezi, è corretto chiamarli: gruppo di “verdi” dalla spiccata coscienza ambientale?Etichettare o dare un colore ad un gruppo eterogeneo e variegato come quello dei manifestanti di Gezi è molto difficile.
Gli attivisti che da più di due settimane occupano l’area verde, sono “tutti mano nella mano, uniti contro un governo che pretende di sapere sempre tutta la verità e niente di meno” (secondo un manifestante intervistato dalla giornalista Tulin Daloglu per il giornale Al-monitor ).
Sono per lo più le nuove generazioni, quelle cresciute con il modello democratico musulmano Erdogan. Ci sono giornalisti, studenti, fotografi, artisti, scrittori, ultranazionalisti, ultra-laicisti, kemalisti, curdi. Ci sono anche bandiere politiche come MHP (i cosiddetti “lupi grigi” nazionalisti), il CHP (principale partito di opposizione), il BDP (partito per la democrazia e la pace, legato alle istanze e ai diritti dei curdi), il TDK (il partito comunista turco). Sono presenti anche alcuni simpatizzanti del partito AKP di Erdogan. E non mancano i cosiddetti “turchi bianchi”, la classe medio-alta, colta, occidentalizzata e liberale.
C’é anche la voce religiosa dei ‘Capul’ (termine dispregiativo con il quale sono stati etichettati i manifestanti, che in turco vuol dire ‘relitto’). E’ la voce di Ihsan Eliacik – rappresentante del movimento musulmano anti-capitalista. Questo movimento è emerso come il gruppo più straordinario nel parco Gezi, poiché legittimante della rivolta anche nei quartieri religiosi (roccaforte del governo).
Eliacik afferma nell’intervista: “Non sono né un nazionalista, né un kemalista, né un socialista. Io sono un musulmano contrario al capitalismo. Critico l’egemonia. Non metto in dubbio la fede della persona che resiste al mio fianco”.
Il gruppo musulmano anti-capitalista, ha fornito il biglietto per Taksim a quei devoti che oscillano tra un governo islamico (moderato) e le masse che protestano, preoccupate di una regressione religiosa degli affari politici interni ed esteri.
Eliacik ritiene che le proteste Gezi daranno vita ad una nuova corrente politica, culturale e sociale di tolleranza reciproca, che abbraccerà molti segmenti diversi – da islamisti a secolari di sinistra, da aleviti a curdi.
Un sondaggio condotto dall’Università Bilgi di Istanbul tra i 3.000 manifestanti, fornisce indizi su quale tipo di movimento potrebbe emergere. Secondo il sondaggio, il 70% dei manifestanti non simpatizza per nessun partito politico, e solo il 15,3% dice di sentirsi “vicino” ad uno dei partiti. Più della metà dei ragazzi (53,7%), prendere parte a una manifestazione di massa per la prima volta. Alla domanda sulle ragioni, vengono espresse le seguenti: la deriva autoritaria dei modi del PM (92,4%), l’uso eccessivo della forza da parte della polizia (91,3%), le violazioni dei diritti democratici (91,1%), il silenzio dei media (84,2%), la rimozione degli alberi di Taksim ( 56,2%), il supporto agli appelli dei movimenti politici di appartenenza (7,7%). In risposta al modo in cui si definiscono, i manifestanti rispondono “libertario” (81,2%), laico (64,5%) e apolitico (54,5%). Coloro che si dicono contrari a colpi di stato militari infine ammontano al 79,5%.
Gezi Park è diventato una sorta di piattaforma comune per idee sociali e culturali che normalmente non sono mai apparse fianco a fianco. Indubbiamente, la sua trasformazione in un movimento politico duraturo non è così immediata. Tuttavia, non vi è alcun motivo per non sperare in una cultura comune che potrebbe tenere insieme la diversità.
A seguito delle dichiarazioni di referendum da parte del portavoce Celik, i rappresentanti della “Piattaforma di solidarietà per Taksim”, che avevano incontrato la settimana scorsa il viceministro Bulent Arinc, hanno dichiarato di non essere stati contattati per un possibile referendum. Hanno inoltre aggiunto di credere nel dialogo, di non essere portavoce di nessuno, e di volere che Gezi rimanga un parco e che il responsabile dei giri di vite della polizia sia indagato.
Le domande a questo punto sorgono spontanee: chi sono gli 11 rappresentanti delle proteste, che hanno partecipato oggi pomeriggio al meeting con l’entourage AKP? E’ opportuno che 11 persone si facciano portavoce dei migliaia, alla luce dell’estrema eterogeneità del gruppo di Occupy Gezi? E’ opportuno chiamare in raccolta i soli residenti di Istanbul per un referendum che pone una domanda restrittiva, in relazione all’ampiezza dei temi emersi? Nelle province che hanno supportato Gezi, come Ankara ed Izmir, come saranno rappresentate le istanze delle persone che non hanno il diritto di votare per il referendum?
E ancora: si tratta davvero di un tentativo di riconciliazione delle forze e degli equilibri in gioco? Oppure siamo di fronte all’applicazione di uno degli strumenti di scorta dell’antica diplomazia francese, ossia quello del “sauver la face”?
A queste domande non c’è ancora risposta, soprattutto in ragione dell’incertezza sulla fattibilità del referendum e dell’eterogeneità delle parti in causa.
Una cosa è certa: saranno molti i mezzi democratici che il governo turco dovrà utilizzare per salvarsi la faccia (a livello nazionale e internazionale) e per ricomporre l’immagine di quel Paese che nel 2001 era il simbolo della politica “zero problemi” ma che nelle ultime settimane è diventato quello della politica “zero tolleranza”.
di Silvia Cardascia