-Di Monica Grigolo
Antropologia culturale, psicanalisi, etologia obbligano spesso a riflettere a lungo sul mondo animale e ai suoi rapporti con l’uomo: totem, spirito-guida, simbolo etico-teologico, presenza onirica o più semplicemente compagno di vita o fonte di energia, di materia prima e di sostanze alimentare. L’animale intrattiene con l’uomo rapporti complessi che possono attraversare sensi di fratellanza, affetto, paura, estraneità, inimicizia, atteggiamenti che sovente rappresentano anche altrettanti alibi per la crudeltà e l’avidità umane.
Si pensa che con nel mondo civilizzato l’uomo sia diventato più clemente e più civile nei suoi rapporti con il mondo animale: molte cose per le quali fino a qualche anno fa era necessario un animale si fanno adesso con l’ausilio delle macchine, a parecchi prodotti di origine animale si supplisce con materiali di origine differente. Ma: se molti si scandalizzano ancora dinanzi a fenomeni quali la vivisezione o la corrida e se la sensibilizzazione (sacrosanta e necessaria) contro l’abbandono degli animali domestici impietosamente abbandonati in procinto della partenza per le vacanze e schiacciati quasi altrettanto rapidamente dalle auto ai cigli delle strade sta dando qualche frutto, lo spettacolo della caccia e la sua elevazione a sport scuote le coscienza di pochi. L’uomo è per sua natura un crudele predone, la civiltà non gli ha insegnato a essere migliore ma gli ha suggerito molti modi per trasformarsi in predone ipocrita in moda da tacitare la propria coscienza.
C’è un film della Disney che molti hanno visto da bambini, Bambi , che parla di un cucciolo di cerbiatto che rimane orfano della madre perché a questa il nemico cacciatore ha sparato, alta tensione per la perdita della genitrice che non si vede più e si sa che non tornerà, lo sparo a riecheggiare nelle orecchie degli spettatori, lacrime di genitori e bambini. Al cinema. Finiti di sgranocchiare i popcorn e asciugate le lacrime la sequenza della morte è già un lontano ricordo, è solo un film. Ecco, non è solo un film ma purtroppo una delle realtà peggiori nel rapporto uomo animale.
Finché nel paleolitico l’homo neanderthalensis usava arco e freccia per procurarsi cibo per nutrirsi e pelli per coprirsi la caccia era una necessità e a nessun homo sapiens benché animalista del XXI secolo verrebbe in mente di condannare quello stile di vita ma altrettanto nessuno si sognerebbe di definirlo “sport” nemmeno nel neolitico. Già, perché i cacciatori molto homo e poco sapiens definiscono questa pratica un tempo di sopravvivenza come sport. Come il nuoto o la pallavolo, come una sfida dove anziché un record da battere o una partita da vincere con i suoi simili dotati di quella che dovrebbe essere l’anima c’è un essere altrettanto di carne e ossa e magari piume che vorrebbe solo essere lasciato libero per godersi la natura di un bosco o di una prateria. Sport. Da praticare con un’arma. Perché allora non darsi alla scherma o al tiro al piattello? Si vincono coppe e trofei da esibire tanto quanto le teste di cervo appese alle pareti sopra il camino, ma saranno lì a testimoniare una gara contro sé stessi e un gioco di squadra e non una corsa alla massacro di esseri indifesi e quindi non alla pari.
I cacciatori si definiscono amanti della natura. Sarebbe bello sapere le impressioni dei boschi e dei prati coperti dei bossoli di fucili, degli animali che sopravvivono e che scappano impauriti o feriti per finire i loro giorni in un’agonia straziante peggiore forse degli animali al macello.
Tra le giustificazioni addotte dai cacciatori c’è quella del soprannumero di alcune specie, cinghiali in primis. Vero, danni ad agricoltori ed allevatori di bestiame questi animali li possono arrecare e li arrecano, ma esistono quelli che vengono definiti “abbattimenti programmati”, dove solo le guardie venatorie dovrebbero essere autorizzate all’uccisione di un determinato numero di capi in base alle reali necessità e dove nessun altro possa trarre vantaggio economico da tale pratica necessaria ma pur sempre brutale. Già, si è scritto di vantaggio economico non solo in riferimento alla vendita della carne ricavata ma anche per l’indotto che comporta questo strano sport: armi, munizioni, cose che solitamente si usano anche in guerra, perché poi anche questa alla fine è una guerra, alla natura e al mondo intero.
Il 3 giugno in Piemonte si terrà il referendum abrogativo sulla caccia, http://www.referendumcaccia.it, il quesito non verterà sulla sua abolizione in toto, ma c’è la volontà da parte dei suoi promotori di mettere dei vincoli restrittivi alla sua pratica:
-divieto di caccia per 25 specie selvatiche (tra cui il cervo, il capriolo e il daino: si potrebbe proiettare davanti ai seggi “Bambi” ad libitum);
-divieto di caccia la domenica (il piacere di godersi un’escursione in montagna senza correre il rischio di essere impallinati dovrebbe essere un interesse comune!);
-divieto di cacciare su terreni coperti da neve (ai cacciatori piace vincere facile, manca solo un cerchio disegnato su qualche animale per aiutarli a fare centro);
-limitazioni dei privilegi concessi alle aziende faunistico-venatorie (di fatto, nelle ex riserve private di caccia si possono abbattere animali in numero molto maggiore rispetto al territorio libero, non dovendosi applicare i limiti di carniere per molte specie. Il referendum vuole abolire questo privilegio per chi può permettersi di andare a caccia in strutture private).
Si vogliono regole più restrittive, per il bene comune, per non trovarsi tra qualche anno a osservare una coturnice o un beccaccino solo sui libri di ornitologia senza avere più la possibilità di osservarne uno dal vivo, perché vivi resteranno solo i ricordi.
Naturalmente i media nazionali ignorano l’appuntamento referendario prossimo, come spesso avviene d’altra parte con altri referendum poco amati da chi governa, e pare che anche quella dei cacciatori rappresenti una categoria da difendere perché buon serbatoio di voti. Il referendum si svolgerà in tutto il territorio piemontese e per essere valido dovrà avere visto alle urne il 50% più uno dei diritti al voto. Oltre a essere un diritto è un dovere civico, nell’interesse di quell’altra maggioranza che senza definirsi ecologista, vegetariana, vegana, animalista vorrebbe solo godersi i rumori del bosco e non i contraccolpi delle doppiette. E si spera, in ogni caso, che la pietra buttata nell’acqua della chiamata al voto piemontese provochi cerchi alle regioni vicine, ad esempio la Lombardia che vede il doppio di sportivi in tenuta verde, berretto e fucile pronta a fare sport sparando.