Lo abbiamo detto tante volte su queste pagine: a Renzi si possono rimproverare molte cose, ma di certo non lo si può accusare di essere un pavido.
E ce lo dimostra ancora una volta sulla madre di tutte le battaglie: la riforma del lavoro.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri è alle strette: preso in mezzo tra una recessione che non molla (ma anzi si aggrava) e un’Europa che – nonostante i grandi proclami di Renzi – non indietreggia di un centimetro rispetto alla stabilità dei conti, Renzi non sa come chiudere senza clamorosi danni d’immagine il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria che deve varare entro il 18 ottobre.
Probabilmente si troverà costretto a rimangiarsi molte promesse o effettuare feroci tagli, in ogni caso ci rimette un pezzo di faccia.
Da qui la battaglia campale sull’articolo 18 e più in generale sulla Riforma del Lavoro. Parliamoci chiaro, senza paraocchi: sin dal principio pare evidente che il primo a farne una questione ideologica è lo stesso Renzi, che ha subito messo in chiaro di non avere nessuna intenzione di trattare con la sua minoranza interna.
E questo ha evidenti ragioni mediatiche: aveva bisogno di un nemico e sapeva che toccando l’articolo 18 ne avrebbe immediatamente trovati molti e peraltro molto poco popolari in questa fase storica: da Bersani alla CGIL, passando per D’Alema e Fassina.
Ma la prova definitiva del valore politico e “totemico” di questa battaglia è la decisione di porre la fiducia sul Jobs act. Badate bene, si tratta di una legge delega al Governo, peraltro su un testo di fatto sconosciuto persino agli addetti ai lavori: se ne conosce vagamente il contenuto ma una cosa è certa, quel che rimane dell’articolo 18 già modificato dalla Ministra Fornero, verrà sostanzialmente abrogato.
Perché Renzi fa uno strappo così forte, tra l’altro la sera prima dell’incontro con i sindacati (incontro da lui stesso convocato)?
Semplice: Renzi vuole sfidare il Parlamento e soprattutto la minoranza del PD (che però in Parlamento tanto minoranza non è) la quale ora si trova di fronte due scelte:
1) Votare la fiducia dando la delega in bianco a Renzi, per formulare una riforma del lavoro che verosimilmente sarà diametralmente opposta a tutta una serie di principi che la sinistra ha sempre posto come fondamento della sua stessa natura, subendo di fatto una sconfitta storica agli occhi dei propri elettori classici;
2) Assumersi la responsabilità di far cadere il Governo guidato dal Segretario, comportandosi - anche qui - in maniera opposta ad un proprio valore classico: la “disciplina di partito”.
Nella prima ipotesi Renzi conquisterebbe una vittoria politica clamorosa, nella seconda dovrebbe correre il rischio altrettanto clamoroso delle elezioni, potendo comunque contare su un consenso personale – a sentire i sondaggisti – di portata eccezionale, con la possibilità di giocarsi la carta “sono stato bloccato dalla sinistra conservatrice”, un messaggio che avrebbe un grande appeal sull’elettorato di centro-destra che rimane orfano di un punto di riferimento, considerando quanto lontano sia Forza Italia da trovare una leadership alternativa a Berlusconi.
Di fatto Renzi ha cinto d'assedio la sinistra del suo Partito che ora deve decidere se issare bandiera bianca oppure provare a resistere sperando nei riforzi (leggasi Giorgio Napolitano).
In ogni caso saranno settimane interessanti.
Domenico Cerabona
@DomeCerabona