Qualche autorevole giornale ha scritto che La bicicletta verde, presentato con il titolo originaleWadjda(il nome della ragazzina protagonista)al Festival di Venezia, nella sezione Orizzonti, è il primo film di una regista araba: diciamo subito che non è vero. Di registe arabe se ne sono già viste, in Algeria, Egitto, ecc. Questo è il primo film di una regista dell’Arabia Saudita, e non è la stessa cosa.
Wadjda ha più o meno dodici anni, è una ragazzina sveglissima e assai determinata che vive con la mamma alla periferia di Riyadh. Ha un sogno: avere una bicicletta tutta per sé, però alle donne non è consentito, sarebbe uno sfregio alla tradizione. Ecco, come in tanti film del passato, a partire dal prototipo tuttora inarrivabile di De Sica-Zavattini, anche qui la narrazione ruota intorno a una bicicletta. Nella scuola frequentata dalla ragazzina, viene indetta una gara di Corano, chi ne imparerà più capitoli a memoria e li saprà recitare come si deve, avrà un premio in denaro. Naturalmente Wadjda si iscrive con l’intenzione di mettere mano sul piccolo bottino e potersi comprare la bicicletta. Vince. Ma quando la perfida preside viene a sapere come spenderà il gruzzolo, glielo confisca destinandolo “a sostegno dei nostri fratelli palestinesi” (ironia geniale e pure coraggiosa per un film arabo). Il finale non è il caso di svelarlo, ovvio.Ecco, l’idea del film è questa, semplice ma straordinariamente efficace: una ragazzina che non è come le altre ragazzine, che non accetta e non subisce, che vuole potere scegliere nonostante tutto intorno a lei glielo impedisca, e la bicicletta agognata diventa simbolo e metafora di una ribellione ed emancipazione femminile.Una storia semplice, di quelle che vanno diritte al cuore dello spettatore, con personaggi positivi per cui viene naturale parteggiare. Aggiungete che Wadjda tratta, pur senza menarla troppo con espliciti messaggi politici e fastidiosi didascalismi, la faccenda della condizione femminile in Arabia Saudita, non proprio il paese arabo e musulmano più avanzato in fatto di diritti, improntato com’è a un rigido wahabismo, visione assai rigorosa dell’Islam e delle sue norme. Paese in cui notoriamente le donne non possono nemmeno guidare, e difatti una delle lotte in corso, di cui ci arriva qualche eco, è proprio quella delle signore al volante. Ecco, tutto questo costituisce lo sfondo in cui la regista, Haifaa Al Mansour, inscrive il suo racconto. Non si cerchino in questo film ardite sperimentazioni registiche, autorialità sfrenate e narcise. Qui c’è una piccola grande storia di quelle che sanno parlare al pubblico di ogni latitudine e longitudine, un film universale che piacerà dappertutto. Con quell’omaggio al neorealismo italiano che in fondo ci inorgoglisce sempre, però fatto a ciglio asciutto, senza miserabilismi e patetismi. Anche sentimentalismo e retorica vengono mantenuti al di sotto della soglia di allarme.
Non amo i film militanti, a tesi, con il messaggio incorporato. Ne ho visti troppi sulla oppressione delle donne e il loro diritto alla ribellione, e spesso era cattivo cinema. Ma a Wadjda non si può non voler bene.
voto: 7