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Sangue di cane

Creato il 17 novembre 2010 da Fabry2010

Sangue di cane

 

di Veronica Tomassini

“Racconterai la storia che ti ostini a tacere”
Si può raccontare la stessa storia, fino alla fine, come un regista, girare lo stesso film, tutta una vita. La mia scrittura è nata in sordina, oggi dico la mia scrittura è la Polonia.Una volta vidi Yurek al semaforo, chiedeva come sempre. Non lo riconoscevo più. Era davvero patetico, aveva il ventre gonfio, gommoso. Yurek veniva da Starachowice, Sud della Polonia – voivodato di Santacroce, non fa testo nella geopolitica che conta. D’altronde neanche Yurek, polacco e barbone, faceva testo, tanto poi Yurek è morto e adieu. Yurek aveva cinquan’anni, morì che aveva mezzo secolo quindi (trequarti del quale annaffiato di vodka, con tutte le stimmate del proscritto, bah); morì in una città annoiata, distratta, aliena. Siracusa non c’entrava un accidenti con Yurek. Tutto questo mi colpì. Era il 2000 e qualcosa, non ricordo. Non esisteva ancora nemmeno l’idea di un romanzo. Capivo che Yurek e gli altri con lui, dico i vuoti a perdere, gli ectoplasma di quel metauniverso che avevo abitato a lungo, erano soldati di un esercito greve, orrendo, erano eroi capovolti. Io mi trovai in quei luoghi, dentro una straziante apologia del grottesco; chi mi aveva condotto lì, tra parco, case abbandonate, vagoni morti: chi? Il mio era un compito allora, che aveva il valore della testimonianza, allora.
Possibile.
Da metà anni ’90, e per un buon lasso, ho condiviso una strana vita, assistendo ad un pellegrinaggio mogio, uomini senza identità attraversavano le nostre frontiere per venire a crepare quiggiù (in Sicilia); venivano dalla Polonia ed io sapevo appena della Polonia, sapevo del Papa polacco e forse di Wawel, delle sue guglie. Incontrai quell’uomo, lui davanti agli altri, mi aprì la porta sgangherata di quella strana vita, dove il dolore era il tedium perenne di un “abbaglio storico”, la morte un calice alzato e uno schiocco di piatti. La mia scrittura così si adeguò alla sostanza delle cose, che erano infime e immorali, secondo molti. Avrei abitato un metauniverso, appunto, popolato da esseri deturpati, incurvati dal dolore, segnati col fuoco, bruciati dalla vodka. Le mie piccole storie così furono storie estreme da quel momento in avanti, dove a morire erano sempre i polacchi, a patire, ad elevarsi nel loro tributo eroico e nazionalista persino, marcendo in una crepa, seppelliti dagli escrementi, col fegato in briciole. Raccontavo la mia versione delle cose, della storia più recente che riguardava anche una cittadina mediocre e irretita, Siracusa, guarda un po’, con il vezzo della multiculturalita, ma con le pinze al naso. La mia vita però superava di gran lunga la finzione, l’autofiction non reggeva il passo. Quando Giulio Mozzi, a distanza di anni, incontrandomi per la prima volta mi disse: “racconterai la storia che ti ostinavi a tacere”, mi sembrò l’unico seguito sensato, un diktat morale e letterario insieme. Nella mia vita capovolta, come i miei eroi, avrei trovato consolazione (non edificazione) in un traduzione testimoniale di quel che avevo visto, attraverso l’uomo che, sfidando le frontiere ostili e un Occidente pingue con la sua epa molle e sazia, aveva rivelato il suo straordinario mondo, sbilenco, senza denti. Non pensai ad un incipit, non pensai a nulla quando Giulio Mozzi mi disse: “racconterai la storia che ti ostinavi a tacere”. Soltanto immaginai il semaforista, pensai: “Il semaforista, lui, sì, il semaforista ha il ventre gonfio e gli occhi rigati di sangue”. Semaforista cioé frequentatore di semafori dove postulare “poco spicci, prego”. Il semaforista è un uomo polacco. Era il mio. Cominciava così, poteva essere un’idea. Realizzai: eccolo il romanzo di pietas e di eroismo. Lo diventò, credo, “Sangue di cane”, ambientato dentro una deriva di uomini dell’est, senza tetto, malati di alcol e di nostalgia, finiti nelle grotte, nelle fogne di una provincia del sud Italia. Uomini, demoni, globetrotter funerei, cenere e incenso. Erano ex uomini, ex padri, ex operai di cartiera a Lodz; ex madri, ex impiegate delle poste di Chelm, sfinite, assetate di vodka e di rimpianti. Il romanzo doveva raccontare di tempi maledetti, di cambiamenti epocali che svuotarono gli inutili agglomerati di una Polonia mesta e rurale, interrogando le nostre frontiere con il loro carico indigesto di uomini. Soltanto adesso mi rendo conto che nell’insieme “Sangue di cane” è il tentativo (non consapevole né convinto) di onorare il sacrificio, l’agnello sull’altare, perché “vi son certamente migliaia e migliaia di Cristi, fra tutti quei morti”.



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