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Prima le senti, e ti colpiscono. Poi impari a piazzarle nel giusto contesto, e certe volte è divertente assistere alle facezie involontarie di chi non vi ha messo la giusta cura. Poi magari dopo anni e anni ti rendi conto che una parola universalmente non esiste.
Soprattutto uno col padre gran giocoliere di parole, da cui immodestamente avrò ripreso, ne convengo; oppure uno che, due minuti dopo aver imparato a leggere, si è intrippato del Braccio di Ferro di Segar degli anni '30.
Si dà il caso (bello, anche “si dà il caso”) che io unisca nella mia persona sconfinata entrambi i tizi.
Tempo fa, una mia amica/conoscente flautista per iscritto mi apostrofò con un “oh, scalmanato Vili”. Io nella circostanza ebbi fremiti di piacere, e solo adesso razionalizzo. Esiste “scalmanare”? non mi scocciare colla tua pedanteria, da qualche parte so purìo che probabilmente attiene a storie di barche, o cavalli, non so.
Ma si può dire, di uno che uscendo dalle acque deliziose & salmastre di un mare di giugno portando imperiosamente la fronte verso il cielo, che si è fatto i capelli “alla Mascagna”? e se s'ode un boato all'improvviso, senza che per questo l'aria tutt'intorno si faccia sulfurea, mi si capisce se chiedo “chi ha fatto un put”?
E che mi dici di sparadrappo, pellaschera, brebba, scapicollarsi, Pappagone, fraffo?
E scalcagnifica, regge l'accusativo, è transitivo, intransitivo?
e soprattutto, qualsiasi cosa regga, per quanto ancora continuerà a reggerla?
Intendiamoci. Io ho adesso gli strumenti per ricostruire una corretta etimologia, ma a che pro? Non è più bello rimanere coll'interrogativo?
Tempo fa, a una che si sta diplomando in jazz al conservatorio, che però condivideva i miei stessi blocchi musico-improvvisativi, esponevo la mia teoria solita. A scuola impari la grammatica, l'analisi logica, la sintassi, i congiuntivi; ma poi quando parli mica a ogni verbo detto ti metti a pensare “e mò questo che areggerà?”. Tu parli e via, perché hai talmente studiato, letto, scritto, talmente parlato – questo è il punto – che hai generato un automatismo, e il parlare quando si presenta l'occasione non è nulla di eccezionale, nel quotidiano.
Colla musica invece questo non succede. Quando suoni ti senti giudicato, come al saggio di pianoforte delle elementari. Alcuni imparano migliaia di frasi, e sono capaci di suonarle in ogni tonalità sul giusto contesto armonico. Tu pensa una cosa del genere nel parlato. Ridicolo. Ci sono persone che fanno così, e non comunicano per un cazzo. Sono pochi quelli che veramente parlano, con uno strumento.
Lei giustamente mi ha risposto che uno a parlare ci prova da subito, a una certa si mette pure a studiarne le regole, ma impara prima a esprimersi e poi a farlo in modo composito. Mica puoi prendere un neonato e mentre provi a fargli ripetere “mammà&papà” gli incerotti un flauto dolce tra le labbra.
Ecco in definitiva perché “gangarone” è e sarà sempre meglio di qualsivoglia semibiscroma o di re diesis semidiminuito.
Parole, parole, parole. Braccio di ferro a un certo punto commentava l'operato di qualcuno dicendo “che ligera” - o era staccato, “li gera”? Quel bauscia (altra cosa che è bello non saper bene cosa voglia dire) del Riccioletto, dall'alto del suo milanesismo acquisito, ha scoperto che la ligera era tipo la malavita milanese. Come pure quell'altro appellativo, “piangina”, con cui Dante Bertolio apostrofava Poldo Sbaffini dopo avergli vinto delle biglie in una storia in cui entrambi avevano bevuto l'acqua della Fonte della giovinezza; esiste veramente, e certo non a Roma o negli Abbruzzi Sconfinati.
È bellissimo, bellissimissimo, come impari le parole. Non è che arriva uno e te le spiega. E se pure viene, in genere ti rovina tutta la poesia. A meno che non sia uno che di stare al mondo ne capisce come ne capisce Un Riccioletto.
Come impari le parole è una delle cose belle della vita.
Una cosa brutta della vita è invece tutto il resto, fatte salve le sigarette e qualche altro centinaio scarso.
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