District 9, ovvero:
sulla narrativa adeguata ai tempi e sull’ appropriazione della fantasia
è uscito nelle sale tempo fa, ma pare non abbia lasciato tracce. In pochi l’hanno visto, e a quasi nessuno è piaciuto. Eppure a mio parere è destinato a rimanere.
District 9, del duo Neill Blomkamp e Peter Jackson, è un’incubo di kafkiana modernità, un’odissea mutante nella direzione delle future possibilità del narrare.
La spesso dichiarata – talvolta sussurrata, quasi sempre sbandierata, ultimamente negata – morte dei generi trova qui, paradossalmente, un’ennesima smentita.
I generi non sono morti, né moriranno. Si assottiglieranno, diverranno cristalli rari ma solidi, dal seguito certo. E ci regaleranno ancora opere di cui innamorarsi e parlare, pezzi unici su cui ribattere le proprie certezze.
Ma insieme ai generi ci sarà anche qualcos’altro. Non si può più parlare di semplice contaminazione. La miscela di stili e di linguaggi, l’iperbole tecnologica e culturale degli ultimi anni, con le sue ossessioni divenute concretezza (teorie cospirative, terroristiche e governative) e i dubbi tramutatisi in realtà, l’assenza o la debolezza di direzioni maggiori e la miriade di nuove altre, tutte minori, stanno producendo lentamente i loro frutti.
Non solo al cinema, ma anche in letteratura (forse il campo che ne ha rivelato gli aspetti e le possibilità in maggior anticipo su tutti gli altri), nella musica, nelle performance artistiche, e ai livelli più differenti della comunicazione.
District 9 non è un capolavoro, intendiamoci. Ma si muove sulla stessa linea di un mix magistralmente in equilibrio – realtà/fantasia/inconscio/ipotesi alternativa – nel quale far rientrare l’altrettanto valido (ma meno sorprendente) Inglourious Basterds di Tarantino.
Se in precedenza era semplice riconoscere stili e influenze – perché non ancora amalgamate in un ritrovato di novità (ovvero quello che ad esempio non è riuscito a Tarantino stesso con Kill Bill) – adesso tutto gioca a confondersi.
Lo stile mock-documentaristico di District 9, coi suoi riferimenti alla pop-culture, ai comic book e ai videogiochi, ma anche al mondo di oggi e ai timori su quello di domani, serve una narrazione che non è documentario e non è finzione, ma soprattutto, non pretende di imitare né l’uno né l’altra.
L’incubo è kafkiano. La mutazione c’è. Ma non riguarda solamente il protagonista della storia. Muta tutta la società intorno a lui, muta l’idea di Civiltà, muta la maniera di narrare, muta quella di percepire.
Per chi parteggiare? Per cosa? È tutto inventato, si sa.
La decisione di collocare l’instabile miscela in una Johannesburg brutta e distante, ancora avvolta negli orrori mai completamente rimossi dell’Apartheid non è casuale. Dov’è Johannesburg? È già/ancora qui? È dietro l’angolo?
È l’apartheid delle culture che occorre combattere. Non con l’opposizione ai mix che hanno cominciato a produrre le prime mutazioni, ma con l’accettazione del diverso che ci sta di fronte.
Lascia pensierosi, questo nuovo, contemporaneo Gregor. Come se, prima ancora del Grande Fratello orwelliano, sia stata davvero la metamorfosi d’inizio secolo ad aprire il primo vero squarcio sul futuro-umanità.
Il finale della storia, col protagonista lasciato solo, alieno a tutto e a chiunque, vero naufrago di questo universo-riverso dell’era post-postmoderna – e a cui non rimane altro che il sogno dell’arte in un fiore di latta e la speranza di un’astronave che un giorno lo verrà a salvare dai suoi simili – quello squarcio sembra dilaniarlo. I simili non esisteranno più il giorno in cui smetteremo di accettare il differente. Nella vita come nella narrativa, cinematografica-letteraria-fumettistica-musicale-artistica.
È verso questi oggetti non identificati che mi sembra dirigersi sempre più, oggi, l’organismo umanità, mosso negli anni da una guerriglia che ha cominciato lentamente ad organizzarsi in avanposti.
Una nuova avanguardia arriverà. Sarà fatta da migliaia d’altre. Spazzerà via tutto, senza però buttare via niente. Lei stessa mutazione di ciò che un tempo è stata.
Il genere vivrà.
Ma qualcos’altro si poserà, e per lungo tempo, al suo e al nostro fianco.