Bice era una delle cugine di mio padre. Figli di una sorella e di un fratello non avevano avuto modo di frequentarsi se non in età adulta, quando il caso volle che avessimo casa a distanza di pochi passi. Bice faceva la sartina in casa. Era stata mandata da piccola da una maestra e dunque, da signorina, fu capace di gestire una piccola clientela fatta di donne con poche pretese. Minuta e dall’aspetto mite, Bice si vendicava del destino maligno, malignando e pettegolando sugli altri. Non avvezza ad uscire di casa difficilmente avrebbe potuto attingere notizie su cui arzigogolare dall’esterno, ma la sua fonte di informazioni – a volte meglio di un qualsiasi quotidiano – erano le sue clienti abituali e le vicine che, ogni giorno, sedevano sulla mezza sedia che Bice aveva a portata di Singer, e le raccontavano tutto quello che si svolgeva al di là delle persiane verdi perennemente appannate. Comunque anche spalancate, le persiane le avrebbero dato più fastidio che altro; la luce che pioveva dalla porta finestra, affacciata sul balcone pieno di begonie, era insufficiente, tanto valeva tenere le persiane in quel modo, si poteva guardare fuori, all’occorrenza, senza essere spiate dalla strada. Bice era una signorina grande. Il destino maligno, aggettivo che la soccorreva quando doveva definire la sua vita con chiunque le chiedesse, perché? veniva tirato in ballo per giustificare quella zitellanza mal digerita e mal vista in famiglia. Emanuele il fratello più grande, era la causa della sua condizione. Da ragazzo era stato malato di nervi e non s’era più riavuto. Ricoverato in ospedale i medici avevano consigliato di internarlo in manicomio; la famiglia non era in grado di gestire un giovane uomo che aveva iniziato a parlare con persone esistenti solo nella sua testa e così se ne sbarazzarono. Allo stesso momento si sbarazzarono del problema di accasare Bice, che bella non era e neppure fornita di una dote cospicua. Chi l’avrebbe voluta in moglie adesso che il fratello era diventato pazzo da manicomio? Quindi il padre, un contadino piccolo di statura e di cervello, taciturno quasi sempre, aveva decretato, in poche parole, la sua morte civile e l’aveva relegata in casa ad accudire a lui e a sua moglie, madre priva del diritto di replica. E anche se Bice da principio piangeva e sospirava, la madre finse di non sentire e si dimenticò di quella figlia, se non quando doveva comandarle la fattura di nuovi vestiti, uno o due all’anno, di più non se ne potevano permettere e poi sarebbe stato uno spreco per quella famiglia avara di tutto, di parole e di affetto, soprattutto. Così iniziò la sua vita fatta di piccole cose, del rumore della macchina da cucire che si muoveva al ritmo delle sue gambe magre mai incerte nel pedalare, delle gugliate di filo colorato disseminate sulla gonna di un panno sempre di colore marrone oppure grigio, degli occhi azzurri, i suoi, un po’ sporgenti, intenti a seguire la stoffa che si muoveva sotto il piedino che reggeva l’ago, del tavolo dove tagliava le stoffe con i modelli di carta velina e il gesso bianco, del ferro da stiro riscaldato sulla cucina economica che, messo sul panno bianco umido delle rifiniture, sfrigolava e le ricordava l’inverno quando la madre, poco più in là in cucina, faceva rosolare nella padella nera dei fritti il pane per condire le cime. A noi bambine Bice piaceva, perché era piccola di statura così come eravamo piccole noi, e ci insegnava a fare le imbastiture. Quando qualcuna in casa scocciava per mancanza di attenzione, le madri distratte si liberavano con un: Vai da Bice e fatti dare mezzo chilo di intrattieni. Questa esotica merce definita intrattieni ci sapeva di presa in giro, ma a noi piaceva stare al gioco, perché il mondo di Bice era colorato e pieno di stoffe; era un intrattieni tutto da esplorare. Così succedeva che Bice al limite della pazienza ci dava in mano, finalmente, due pezzi di stoffa, un ago infilato e ci diceva come fare una imbastitura. Fare quei punti lenti e lunghi con il filo bianco sulla stoffa colorata era una magia, l’intreccio che metteva insieme il nulla, per trasformarlo in una gonna di bambola – quello ci sembrava in certi momenti il ritaglio di stoffa – oppure in un paletò. In quel posto di intrattieni si parlava una lingua da grandi, ma diversa da quella dei genitori; venivano signore a provare i taier e in primavera i soprabiti sette ottavi dubel feis che Bice cuciva per la domenica delle Palme. Erano color confetto, colori che ricordavano a Bice i fiori che sbocciavano sul suo piccolo balcone nella stessa stagione dei taier. Così, a furia di confezionare quei paletò sette ottavi, le rimase attaccato addosso, come i fili sulla sua gonna di panno, il nomignolo che definiva la lunghezza sopra al ginocchio di un soprabito primaverile. Anche quando, anni dopo, seppi della sua morte da una vicina di casa, venne fuori malignamente un Bice sette ottavi.
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