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Il lungo periodo di preparazione alla Pasqua, durante il quale ci si astiene dalla carne, trova nei legumi l'alimento indispensabile nel fornire le proteine necessarie a sostenere un organismo; come accadeva nel Medioevo quando le epidemie causavano un'alta mortalità, soprattutto fra quella parte della popolazione, la stragrande maggioranza, che non poteva accedere alle proteine nobili della carne. Fu anche grazie alla coltivazione dei legumi, divenuta più frequente già dal X secolo, se la salute collettiva ne giovò a tal punto che l'Europa si ripopolò abbastanza velocemente, giusto in tempo per affrontare lunghe e sanguinose guerre. Ma questa è un'altra storia.
Le fave, con i ceci e le lenticchie, erano i legumi allora più conosciuti e sfruttati: poveri ma buoni mettevano insieme il pranzo con la cena e bastava l'aggiunta di qualche ortaggio e di qualche aroma per renderli appettitosi. I più fortunati poi univano agli effetti delle lunghe cotture nei tegami di coccio anche il valore aggiunto di qualche pezzettino di carne di maiale, che rendeva il tutto ancor più appetitoso. Quando attorno alla metà del '500 Papa Clemente VII regalò all'umanista bellunese Paolo Valeriano qualche seme di uno strana pianta proveniente dal nuovo mondo, strappandogli la promessa che ne avrebbe studiato le caratteristiche e la possibilità di coltivazione, non avrebbe mai pensato che questa, iniziata sull'altopiano di Lamon, che aveva le medesime caratteristiche morfologiche di quelli andini, avrebbe comportato l'abbandono della coltivazione delle fave. I fagioli infatti avevano una resa maggiore delle fave sia in coltivazione che in cottura e la coltivazione di queste ultime fu relegate in alcune zone del centro e del sud Italia, maggiormente soleggiate rispetto agli altopiani ed alle campagne del nord-est.
Le fave infatti, prima di essere spodestate dal fagiolo, erano molto apprezzate sia dagli Egizi che dai Romani che erano soliti consumarle anche con il baccello, se appunto tenerissime. Amate a tal punto da battezzare una delle famiglie più importante di Roma, i Fabi. Ma nonostante ciò la coltivazione di una fava in una zona della Puglia, Carpino, fece la fortuna di questo paese e anche di una specifica tecnica che ha saputo dare nel tempo delle caratteristiche uniche a questo legume. A Carpino i terreni sono prevalentemente argillosi e calcarei e questo mix così speciale rende unica una fava, dalle dimensioni medio-piccole, con una fossetta nella parte inferiore. Di un verde intenso al momento della raccolta diventa color sabbia con l'essiccazione. La coltivazione di questa fava di alterna a quella del grano duro e della barbabietola e le eventuali erbette infestanti si tolgono rigorosamente a mano. La semina avviene in autunno e in estate le piante, oramai ingiallite, si tagliano con la falce a mano e si riuniscono in covoni che si lasciano essiccare sul terreno. "Nel frattempo si predispone un'area circolare bagnando il terreno, lo si copre di paglia e si pressa, creando così uno strato duro e compatto sul quale lavorare. Durante il mese di luglio il coltivatore passa a cavallo sui covoni, girando in tondo così da schiacciarli; successivamente con i forconi e con i movimenti che oramai si vedono sempre più di rado nelle nostre campagne, si suddividono le fave dalla paglia mentre con delle pale di legno si dividono le fave dai residui più minuti della paglia, lasciandole ulteriormente asciugare sul terreno." (cit. SlowFood Editore) Questa tecnica antica, che si perde nella notte dei tempi, è diventata, unitamente alla fava, un prezioso presidio Slow Food. Ho pensato quindi di sviluppare un piatto che avesse in sé tutti i profumi del sud del nostro paese, grazie appunto a queste fave ed alla sapidità unica di un pecorino semistagionato, e anche dell'oriente, con il tè matcha che ricorda il verde intenso della fava fresca e il profumo caratteristico di erba e di paglia. E Buona Pasqua a tutti!
Sformato di fave di Carpino e pecorino profumato al tè matcha Ingredienti 400 g di fave secche, 200 g di scalogni, 200 d di latte intero, 2 uova bio, 30 g di burro chiarificato, 20 g di farina 0, 80 g di pecorino semi-stagionato, 20 g di tè matcha, 10 steli di erba cipollina, sale in fiocchi, pepe nero macinato al momento, olio evo, vino bianco secco.
Procedimento Lasciare in ammollo le fave per una notte e sciacquarle accuratamente con l’acqua fredda. Cucinarle a vapore fino a quando saranno cotte ma un po’ croccanti, con la punta delle dita pizzicarle ed eliminare la pellicina esterna. In una casseruola far appassire gli scalogni tagliati sottilmente con un filo di olio evo, unire le fave, far sfumare con un paio di cucchiai di vino bianco e terminare la cottura delle fave, che dovranno essere morbide. Passarle al passaverdure o al setaccio e metterle da parte. In una ciotola sciogliere il burro, unire la farina setacciata con il tè e continuare la cottura con il latte caldo fino ad addensare la besciamella. Togliere dal fuoco, unire le uova sbattute, la purea di fave e il pecorino grattugiato. Mescolare bene, profumare con del pepe macinato al momento, regolare (se necessario) di sale e versare il composto in uno stampo da soufflé di 16-18 cm di diametro, precedente imburrato ed infarinato, e cucinare nel forno statico già caldo a 180° per 35’-40’, a bagnomaria. Sfornare, lasciar raffreddare qualche minuto, sformare e servire decorando con un trito di erba cipollina.
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