Io sono nato nel 1963, con un timing strepitoso per assistere ad una delle più significative fasi di evoluzione (forse sarebbe meglio dire dismissione...) del costume sessuale italiano. La prima metà degli anni settanta fu infatti il miglior palcoscenico immaginabile per chi a quell'epoca fosse minorenne ma non troppo, il trampolino di lancio ideale per certi appetiti sessuali smodati e non appagabili, il paradiso del vorrei ma non posso con tutti i suoi corollari masochistici ed onanistici che nessun'altra generazione successiva avrebbe più potuto abitare.
Mentre noi adolescenti ci si arrabattava come si poteva fra il tormento e l'estasi che il diluvio primordiale di pellicole cinematografiche e pagine patinate ci regalava, i figli del sessantotto - quelli che per noi erano fratelli maggiori - approfittavano di questa new-wave libertina per mettere a segno conquiste erotiche a getto continuo, con una facilità che ai nostri occhi si colorava di soprannaturale. Gli anni settanta ci regalarono dunque una gioventù a due velocità: la tribù degli adolescenti debosciata e passiva e quella dei giovanotti fortemente interattivi e sempre sul pezzo. I giovani di oggi mi sembrano tutti uguali, adolescenti e giovani in senso stretto. Paradossalmente il sesso sembra non funzionare più da spartiacque ed anzi accomuna le due categorie in un'unica macro-dimensione cibernetica e voyeuristica in cui lo spazio per il contatto fisico è secondario ed eventuale. Di questi però non m'importa un fico secco ed è agli adolescenti della mia generazione che voglio tornare, alla loro seborrea ed ai loro foruncoli. C'è un'icona cinematografica che ben li rappresenta, quasi una metafora della sparizione di un'epoca bellissima ed irripetibile. Sì, perchè bellissimo, irripetibile e svanito nel nulla fu per tutti noi quel sogno ad occhi aperti chiamato Silvia Dionisio. Non che mancassero altre figure di riferimento per i nostri malcelati pruriti: Laura Antonelli, Eleonora Giorgi, Beba Loncar (quest'ultima molto di nicchia) popolarono i nostri sogni quanto, se non più, della Dionisio. Nessuna però come lei incarnò la meravigliosa caducità di quegli anni, la loro imprendibilità, il loro mistero. Io ricordo Silvia come un'attrice muta, muta come mute erano le nostre crescite al riparo dalle confidenze verbali con i nostri genitori. La rivedo sfuggente, ammantata di una malinconia superiore, quella che non produce lacrime ma testimonia la non appartenenza a nessun luogo ed a nessun tempo, perchè quegli anni erano proprio questo: perdita delle certezze, ripiego nella soggettività, desiderio di riconquista della dimensione mistica calpestata nel precedente decennio. Mi piace pensare, rinnegando il principio dello scorrere del tempo in una sola direzione, che il buon Leopardi abbia scritto "A Silvia" pensando a lei, ingobbito in una stringa spazio-temporale scomoda quasi quanto le sedie di legno dei cinema che frequentavo negli anni in cui i miei jeans erano tutti rigorosamente a zampa d'elefante.
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