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Siria, why not? Le ragioni di un fallimento annunciato

Creato il 18 aprile 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Luca Barana

Siria, why not? Le ragioni di un fallimento annunciato
Mentre la “Primavera Araba” causava in Nord Africa la caduta dei governi autoritari pluridecennali di Tunisia, Egitto e Libia, in Siria il Presidente Bashar al-Assad doveva affrontare la frammentata opposizione interna generatasi in seguito alle rivolte che dilagavano in tutta l’area mediorientale. Il regime di Damasco ha risposto violentemente alla sfida lanciatagli dal Consiglio Nazionale Siriano, l’etichetta dietro alla quale si sono riunite le principali forze dell’opposizione. Secondo stime delle Nazioni Unite, le vittime accertate a partire dall’inizio delle violenze sarebbero ormai più di novemila, molte delle quali civili caduti a causa della feroce repressione perpetrata dal governo siriano. Di fronte ad una simile crisi umanitaria la comunità internazionale appare inerte, a differenza di quanto accaduto nel 2011 in Libia quando il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò una risoluzione a favore di un intervento a tutela dei civili.

Per poter comprendere il grado di libertà di cui implicitamente ha potuto godere il regime siriano, devono essere analizzate le ragioni dell’inerzia internazionale. Escluso l’attivismo della Lega Araba, che nel novembre 2011 ha sospeso la Siria e si è fatta promotrice di significative richieste nei confronti del regime, due sono state le principali iniziative promosse a livello internazionale, ma poi inevitabilmente fallite: la prima è stata una proposta di risoluzione presentata presso il Consiglio di Sicurezza nell’ottobre del 2011 che richiedeva il blocco delle violenze da parte del governo siriano, minacciando l’adozione di sanzioni; la seconda è consistita in una nuova proposta di risoluzione, presentata lo scorso febbraio, in cui i proponenti intimavano Assad a fare un passo indietro e richiedevano la fine delle violenze, supportando un piano simile a quello promosso dalla Lega Araba. Entrambe le risoluzioni, tuttavia, hanno incontrato il veto in Consiglio di Sicurezza di Russia e Cina, che hanno così ribadito una linea politica di opposizione ad interventi di tal genere, in forte disaccordo rispetto alla volontà occidentale.

Damasco non è Tripoli

Spicca, dunque, il diverso approccio che Mosca e Pechino hanno tenuto rispetto al caso libico. Nella primavera del 2011, l’astensione di Cina e Russia su una risoluzione che richiedeva un “cessate il fuoco” e che autorizzava la comunità internazionale ad intervenire in difesa dei civili aveva aperto interessanti prospettive circa il futuro atteggiamento dei due membri permanenti in materia di interventi umanitari. Anche nel recente passato, infatti, Cina e Russia avevano fatto ricorso simultaneamente al loro potere di veto, opponendosi a risoluzioni che condannavo i regimi di Myanmar (2007) e Zimbawe (2008) e l’astensione sul caso libico appariva, quindi, come una gradita apertura. La vicenda siriana sembra al contrario ricondurre alla “normalità” gli equilibri all’interno del Consiglio di Sicurezza.

D’altra parte, al di là delle tattiche diplomatiche in Consiglio, appare doveroso concentrarsi anche sulla specificità della Siria e dei rapporti che questa intrattiene con Mosca e Pechino. La Siria è infatti un Paese strategico per gli equilibri all’interno della regione, e non solo, a causa dei suoi stretti rapporti con il regime iraniano e con Hezbollah in Libano. Inoltre, il Paese è attraversato da instabili divisioni religiose fra sunniti, sciiti e cristiani che costituiscono un elevato potenziale destabilizzante per la regione. Così come non vanno dimenticati gli importanti rapporti bilaterali che Damasco ha storicamente intrattenuto, in particolare, con il governo russo.

Certamente la Libia costituiva un caso differente rispetto a quello siriano: il regime di Gheddafi non godeva di legami altrettanto profondi con Cina e Russia e probabilmente non rientrava nell’area di interesse strategico delle due potenze, contrariamente alla Siria. Infine, l’astensione della primavera scorsa ha permesso soprattutto alla Cina di presentarsi finalmente in quanto responsible stakeholder dell’ordine internazionale, pronto finalmente ad abbracciare la dottrina della responsability to protect, ormai adottata dall’ONU in materia di interventi umanitari. Un’occasione dunque di accreditarsi in quanto membro affidabile della comunità internazionale senza mettere in pericolo fondamentali interessi strategici.

Pechino in trincea a difesa della sovranità

L’opposizione della Cina alle risoluzioni a favore di un intervento in Siria è dunque il segnale del ritorno alla tradizionale politica estera cinese. I valori di sovranità e di non interferenza negli affari interni sono stati infatti utilizzati come spiegazione ufficiale del veto in Consiglio di Sicurezza. Nell’ottobre scorso le autorità cinesi hanno affermato l’inutilità delle sanzioni nel favorire il processo di pace in Siria, argomentando, piuttosto, che esse avrebbero ulteriormente destabilizzato la situazione nel Paese. In febbraio invece, gli emissari di Pechino al Palazzo di Vetro hanno direttamente chiamato in causa i pericoli derivanti dal mancato rispetto della sovranità siriana, fra le quali figura la temuta possibilità di un nuovo regime change.

Non sorprende questo tipo di approccio da parte di Pechino: tradizionalmente il rispetto della sovranità statale figura fra i cardini della politica estera cinese, con l’obiettivo dichiarato di difendere la sovranità della RPC, disincentivando qualsiasi intromissione esterna. Per ottenere questo risultato, l’opposizione a sanzioni o interventi esterni che violino la sovranità statale è diventata la norma.

Nel caso siriano pesa poi anche l’importanza delle relazioni fra Pechino e uno degli alleati chiave di Damasco nella regione, l’Iran. I rapporti fra Cina e Iran si sono andati approfondendo nel corso degli ultimi anni a fronte della dipendenza cinese dalle risorse energetiche iraniane e del supporto che il governo cinese ha saputo garantire al regime degli Ayatollah di fronte all’aumentare delle pressioni internazionali per il blocco del contestato progetto nucleare . Un intervento internazionale in Siria pregiudicherebbe evidentemente la stabilità della regione mediorientale, da cui dipende una quota significativa dell’approvvigionamento energetico cinese, e metterebbe sotto pressione il regime iraniano, aprendo inquietanti prospettive future.

La posizione di Mosca: armamenti e influenza regionale

Come la leadership di Pechino, la coppia Putin–Medvedev è rimasta scottata dalle conseguenze scaturite dall’astensione sul caso libico, che sono andate ben oltre le aspettative dei due governi. Oggi a Mosca come a Pechino non c’è alcuna intenzione di commettere lo stesso errore. Se però la Cina ha improntato il proprio operato in Consiglio di Sicurezza ai tradizionali principi della propria politica estera, la Russia ha perorato anch’essa la causa della sovranità, a latere della difesa di interessi ben più concreti che la legano a Damasco.

Alla base dei calcoli del Cremlino vi sono ragioni strategiche ed economiche. La Siria è storicamente un Paese molto vicino a Mosca fin dai tempi della Guerra Fredda e in ragione di ciò nel 2006 è stato siglato un accordo di cooperazione militare che ha ribadito quanto siano saldi i rapporti bilaterali. A tale accordo hanno fatto seguito nel 2009 delle esercitazioni congiunte. Ma la natura di tale legame va oltre gli accordi ufficiali. Ancor più che per Pechino, la Siria costituisce per la Russia un partner strategico in Medio Oriente. Durante la prolungata campagna statunitense in Iraq voluta dall’Amministrazione Bush, gli stretti contatti con Damasco hanno fornito al Cremlino un’ottima base su cui fondare le proprie rivendicazioni di potenza regionale. E oggi, mentre si assiste all’affrettato disimpegno militare deciso a Washington, il neo (ri)eletto presidente Putin non ha alcuna intenzione di rinunciare alla propria influenza, permettendo un nuovo regime change patrocinato dall’ONU. Un intervento esterno che, nell’ottica russa, non farebbe altro che aggravare ulteriormente la “guerra civile”, per citare le parole del Ministro degli Esteri Sergei Lavrov, armando le varie fazioni in Siria e generando ulteriore instabilità.

Ma al di là delle ricadute regionali di un eventuale intervento dell’ONU, la Russia è intenzionata a proteggere i legami economici con il regime di Assad, difficilmente rinnovabili nel caso di un cambiamento nella guida politica del Paese. La Russia è, infatti, il primo fornitore di armi del regime: secondo quanto riportato dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), le vendite di armamenti russi alla Siria ammontano ad un valore di 540 milioni di dollari americani nel solo biennio 2010-2011. E’ interessante notare come nel corso del 2011, e più precisamente a partire dai mesi primaverili in cui sono iniziate le proteste, le importazioni siriane di armi da Mosca non abbiano risentito del clima di violenza, calando solamente da un valore di 294 milioni di dollari ad uno di 246 milioni: non si tratta di una riduzione così significativa se rapportata all’aumento delle pressioni internazionali sul regime siriano, di cui evidentemente il Cremlino non ha tenuto conto. Così come allo stesso tempo rimane in programma l’ammodernamento della base militare a Tartus, un porto sul Mediterraneo che costituisce l’unica base russa al di fuori dei confini dell’ex Unione Sovietica.

Strategicamente conforme alla storica ambizione russa di penetrare nell’area mediterranea, Tartus è stato oggetto di un ulteriore accordo fra Siria e Russia che prevede lo stanziamento di navi da guerra russe a partire dal 2012. Difficilmente Putin rinuncerà a questa leva strategica e al regime che ne permette l’esistenza.

Un fallimento annunciato

In conclusione, il fallimento della comunità internazionale nel bloccare la repressione ad opera del governo di Assad non deve sorprendere. Troppi gli interessi in gioco da parte delle due potenze del ‘no’, Russia e Cina. Troppo recente lo smacco subito da Pechino e Mosca nel caso libico. Ancora una volta la struttura istituzionale stessa dell’ONU genera un risultato annunciato: il potere di veto a disposizione dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU rende l’organo stesso succube degli interessi particolaristici di ogni Paese. Nonostante ciò, recentemente la sproporzionata risposta messa in atto nei primi mesi del 2012 dal regime ha indotto anche Russia e Cina a supportare l’operato dell’inviato speciale per la Nazioni Unite e la Lega Araba Kofi Annan, che ha negoziato un instabile accordo fra Assad e le forze dell’opposizione. L’auspicio è che questa volta gli interessi economici, strategici e simbolici delle potenze che siedono in Consiglio non siano così forti da boicottare una seppur tenue speranza per la popolazione in Siria.

*Luca Barana è Dottore in Scienze Politiche (Universià di Torino)

Per approfondire:

Rapporto dell’INSS sulla Siria

Statistiche e descrizione dell’andamento nell’utilizzo del potere di veto


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