Pubblicato da giuseppepanella su febbraio 10, 2012
“E non c’è nulla da capire…” (Francesco De Gregori). Luigi Bernardi, Niente da capire. Tredici storie senza mistero, Bologna, PerdisaPop, 2010
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di Giuseppe Panella*
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Nel 1929, per dimostrare al suo pubblico di essere sul serio un autore di “vere” storie poliziesche, Georges Simenon pubblica I tredici enigmi (con lo pseudonimo di Georges Sim) e poi nel 1932 I tredici misteri che proseguono nell’impresa narrativa precedente. Il numero tredici (di solito considerato ominoso o iettatorio – tredici erano i convitati dell’Ultima Cena di Gesù) sembra aver attirato anche Luigi Bernardi per la redazione di questo suo libro di racconti brevi (ma spesso duri e precisi e feroci come la lama di un coltello alla giugulare del lettore). Così sono tredici anche le storie che hanno come protagonista la giudice Antonia Monanni, donna forse bella e affascinante ma segnata nel profondo dalla difficoltà ad essere contemporaneamente donna e magistrato.
«Antonia è salita dietro, davanti ci sono i due agenti passati a prenderla con l’auto di servizio. E’ salita e loro l’hanno salutata appena. Bastardi. I poliziotti odiano i magistrati perché sono gli unici che possono imporre loro la legge, almeno ricordargli che esiste. Durante il viaggio, Antonia ricapitola le ragioni per le quali ha scelto quel mestiere, non gliene torna nessuna. Gli orari sono impossibili, a volte rientra a casa sfinita, la sola cosa che fa prima di coricarsi è togliersi le scarpe, non importa se poi la puzza dei piedi le invade il letto. I colleghi sono insopportabili, aprono fascicoli a ripetizione, caricano spese enormi sulla collettività per intercettazioni il più delle volte inutili, spesso li chiudono con un nulla di fatto, e un mezzo sorriso non si capisce rivolto a chi. I poliziotti devono essere seguiti passo dopo passo, non hanno idee investigative, quando gliene viene una è perché hanno letto troppi gialli, sempre i più sconclusionati. Non ha più tempo per sé, prima non ci faceva caso, le era persino comodo, adesso che ha trovato un uomo che le piace, urlerebbe ogni volta che è costretta a stargli lontano» (pp. 13-14).
Ma anche la relazione con quest’uomo (un giornalista finanziario di nome Sandro) che all’inizio gli sembrava quasi perfetto finirà ben presto; sarà sostituito ma per poco tempo da un fotografo sportivo che durerà piuttosto poco e molto rapida e furtiva sarà ppure lla relazione con Angelo, un poliziotto più giovane conosciuto durante un’attesa lunga e piuttosto inquietante per cause di servizio (era necessario attendere a luci spente che i poliziotti entrassero in una casa in cui era rimasto appostato un cecchino armato di fucile che aveva ucciso uno stagista del comune e ferito gravemente anche un impiegato che era con lui). Ma nessuna di queste relazioni sarà vero amore, nessuna sarà neppure appagante dal punto di vista sessuale se non per pochi momenti – quelli nei quali sarà lei a dirigere il gioco e a guidarlo. Così come per Antonia il suo mestiere non è un fatto acquisito ma una conquista quotidiana ma per cui forse non vale la pena di lottare tanto. Meglio la routine in cui non c’è “niente da capire”, meglio i passaggi obbligati della quotidianità in cui non si tratta di risolvere casi mirabolanti e complessi ma solo di continuare a consumare il proprio tempo di lavoro come qualsiasi altro impiegato legato e condannato alla macchina della giustizia.
Molte volte la donna si chiede che senso abbia la propria attività e il proprio mandato sociale:
«Il piano lo hanno già predisposto, ognuno deve eseguire la parte assegnata. Indossano gli occhiali che vedono nel buio, fanno spegnere ogni ulteriore luce. Antonia viene colpita dalla paura di avere sbagliato, di avere troppo concesso alle manie militari di quegli uomini addestrati solo a combattere. Vorrebbe sfogarsi con qualcuno. In quel mestiere la solitudine gioca sempre un ruolo primario. La solitudine è l’essenza stessa del giudizio, che può essere soltanto personale, non inquinato da pareri che avrebbero l’unico effetto di confonderlo. Si appoggia contro l’auto della polizia, gli occhi si abituano al buio, ma non vedono niente lo stesso» (p. 129).
E’ la metafora di una condizione umana dominante, in un mondo in cui tutto sembra essere diventato visibile e possibile e in cui poi tutto sfugge e si annida tra le ombre di una capacità di giudicare gli altri e i loro atti che è sempre più labile, più impalpabile. Giudicare significa comprendere, capire, entrare all’interno delle menti criminali e riuscire a stabilire che cosa hanno fatto, soprattutto perché hanno agito nel modo in cui hanno agito. Questo per Antonia non è facile; forse è addirittura impossibile dato il carattere burocratico e ripetitivo dell’azione giudiziaria. Ma in ogni modo provare a confrontarsi con gli assassini e con le vittime è necessario e viene prima di ogni altra cosa. Quello, però, che la donna non sopporta è che ci sia qualcuno che creda e pretenda di saperne di più di chi opera nel settore della pratica della giustizia..della giustizianteressa – il l’ Greene) e alla decifrazioone e ricostruzione di esso si attiene. ne che non si tratta di propor Antonia ce l’ha con gli scrittori di romanzi polizieschi (o “gialli” – come impropriamente vengono chiamati da sempre e comunemente in Italia a partire dal 1929, anno di pubblicazione del primo libro Mondadori con il dorso di quel colore a contrassegnarne l’appartenenza a una collana):
«Antonia scaraventa sul pavimento il libro, un tascabile di cui ha interrotto la lettura. Distesa sul letto, respira profondamente per sciogliere la sensazione di fastidio. Non ci riesce e allora si alza, si china a raccogliere il tascabile, va verso la cucina, accompagna i passi con uno strappo deciso delle pagine. Quando solleva il coperchio della pattumiera il libro è già diviso in otto pezzi, approssimativamente uguali. Le pare poco, un veloce gioco di dita e sono sedici i blocchi di pagine che raggiungono gli avanzi della cena. Antonia Monanni odia i gialli. Li odia perché tropo spesso sono scritti con i calzini e propongono trame assurde. E li odia perché danno l’idea che siano i poliziotti e i carabinieri a condurre le indagini, risolvere i casi: i poliziotti o i carabinieri, non i magistrati come lei» (pp.58-59).
Luigi Bernardi probabilmente non odia i romanzi polizieschi (ne ha scritti e di notevoli) ma sa bene che non si tratta di proporre dei casi complessi o arzigogolati per ottenere una storia che affascini il pubblico dei lettori e li faccia rimanere avvinti alle pagine dei suoi libri. Sa che quello che conta è “il fattore umano” (come ne era consapevole Graham Greene) e alla decifrazione e ricostruzione di esso si attiene e si conforma nello stile e nell’impostazione delle vicende che narra. In prima istanza. È questo che gli interessa – il resto seguirà…
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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)