Con assoluta precisione, il suicidio di Lucio Magri fondatore del quotidiano “Il Manifesto”, viene reso noto il giorno del primo anniversario del suicidio del regista Mario Monicelli. Due persone con percorsi diversi, accomunati dalla solitudine esistenziale (i cosiddetti “senza Dio”) e dalla scelta, legittima, di chiudere la propria esistenza con un suicidio. L’uomo possiede il libero arbitrio e ha dunque il potere di scegliere quando morire. Ma il solo fatto di poter scegliere non ci rende affatto uomini liberi, è solo scegliendo il bene che l’uomo è libero, pienamente se stesso e dunque felice. La morte è il male ultimo, scegliere la morte non è scegliere il bene, chi sceglie la morte non è dunque libero, tant’è che non è felice. Chi parla di queste persone come persone “libere”, fa una grande confusione.
GESTO COERENTE PER CHI NON CREDE IN DIO. Magri e Monicelli erano credenti in altro, non in Dio. Il primo un anticlericale militante, il secondo un devoto di Sarte, che nel ’91 apriva le votazioni al PCI urlando “Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-tung!”. In cosa si può riporre la speranza senza Dio? Nella politica? Nella rivoluzione? Nel denaro? Nel sesso? Tutte speranze effimere, illusioni, si rimane disperati (di-sperati, senza alcuna speranza). Come dice Monica Mondo, «non basta la politica, non bastano neppure gli amici, se non sanno farti compagnia nel dolore, dare un senso al distacco dalle persone care, cercare con te un significato per vivere». Un significato adeguato all’uomo. E infatti, come già facemmo notare dopo la morte di Monicelli, anche per Magri tutti parlano di “gesto di coerenza con la sua vita”, confermando il fatto che solo per un credente, un cristiano si può parlare di incoerenza in caso di suicidio. I laici (intesi come “non credenti”) vedono dunque nel suicidio un gesto di verità e coerenza, Feltri ha parlato di “onore, non di pietà”, Englaro di “sacro rispetto” e un povero Silvio Viale ha ringraziato Magri per «il suo ultimo gesto d’amore per sé e per gli altri». Per i “senza Dio” il suicida pare dunque essere un’eroe, un uomo finalmente coerente. Da questo punto di vista ha perfettamente ragione Vittorio Messori quando dice che «l’eutanasia non è un dovere, ma un diritto per chi non condivida la prospettiva cristiana, cioè per chi ritiene inutile la sofferenza e la vita. Il dolore ha un valore altissimo solo nella prospettiva di chi crede in Gesù» (Qualche ragione per credere, Ares 2008, pag. 188).
Se dunque è pienamente comprensibile il gesto di Magri, non deve essere giustificabile e sopratutto sbandierato come modello da imitare. Mentre i laici (intesi come “non credenti”) perdono facilmente la trebisonda commentando argomenti del genere, i credenti -che sono più abituati ad affrontare questi temi senza paura o contraddizione- sembrano avere molta lucidità. Paola Binetti ricorda che Magri non era né malato né incurabile, solamente un uomo depresso, dunque con un principio di autodeterminazione offuscato. Le fa eco il professor Antonio Tundo, direttore dell’Istituto di psicopatologia a Roma, il quale si sente disturbato del «messaggio disinformativo trasmesso attraverso questo caso», ovvero che «sono depresso e ho trovato un medico disposto ad ammazzarmi. La sua malattia era curabilissima». Fa notare che tra i suoi pazienti «almeno tre o quattro su dieci dichiarano apertamente di volersi suicidare. E quasi il 15% lo programma in tutti i particolari. Negli ultimi anni c’è stato un abbassamento della soglia di comparsa. Contribuiscono bevute, spinelli, sballo, mancanza di sonno». Mario Melazzini racconta di aver contattato anche lui la clinica svizzera ma per fortuna è rinsavito perché «il desiderio di morte non è altro che una domanda d’aiuto».
LO STATO NON VA CHIAMATO IN CAUSA. Tutto questo però non c’entra con la legalizzazione dell’eutanasia. Il suicidio se è questione privata deve rimanere tale, senza chiedere che sia lo Stato ad ucciderti. Lo ha detto bene Gaetano Quagliarello: «Non entro nelle scelte personali, ma non è possibile pretendere che scelte personali, che ritengo in contrasto con il diritto naturale, le compia lo Stato». Anche il teologo Lorenzetti percorre la stessa strada: «Nessuno ha un dominio incondizionato e assoluto sulla vita, così che possa arbitrariamente decidere se, come e quando darsi la morte. Se il non credente non arriva a comprendere che il padrone della vita è Dio, di certo può comprendere che il padrone della vita non è lo Stato. Questo, di conseguenza, non può concedere a nessuno, meno che meno al medico, la licenza di uccidere». La vita è un bene indisponibile e lo Stato è chiamato a tutelare la vita dei cittadini, anche da loro stessi. Questo dovere costituzionale, in cui non è prevista l’autodeterminazione assoluta della persona, viene applicato ad esempio nella circolazione stradale (cinture di sicurezza, casco ecc..), nella legislazione antinfortunistica, nella negazione della possibilità di fare commercio dei propri organi e anche quella di disporne discrezionalmente ecc..
La vita è un bene di così alto valore, ricorda il filosofo Tommaso Scandroglio, così prezioso che posso sì interpretarlo come voglio ma rispettando un limite. Questo limite è il divieto della distruzione del bene stesso proprio a motivo del suo altissimo valore morale. L’uomo è libero di non rispettare questo limite con una scelta personale, ma non chieda aiuto allo Stato.