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Termina il MEI, 20 anni indie. Indipendente,ma da cosa?

Creato il 28 settembre 2014 da Retrò Online Magazine @retr_online

Faenza in questo weekend si è riempita di vita e di musica. Concerti live, conferenze, presentazioni, premiazioni, workshops didattici hanno gremito corso Mazzini e piazza del Popolo di visitatori, curiosi, artisti e produttori. Il meeting delle etichette indipendenti più importante di Italia compie vent’anni e non si può certo dire che il clima di festa sia mancato. La programmazione è stata ricchissima e piena di nomi ed è ancora disponibile sul sito ufficiale dell’evento; noi ripercorriamo le tappe più significative dell’evento che, strutturato in due temi, ha dato spazio sia all’ambito live sia alle disquisizioni (che ogni tanto si trasformavano in premiazioni)  in ambito tecnico-manageriale sull’industria discografica e radiofonica. La kermesse inizia di venerdì. Viene presentato il grande evento ed ha inizio MEI Superstage, contest per talenti emergenti. Viene consegnato il premio ai Corvi come prima indie band italiana. Infine ad un bravissimo Marco Sbarbati viene assegnato il premio di “artista indipendente più trasmesso dalle Radio” per il singolo Backwards. Sabato è il tour de force. La città brulica di palchi e tutti si esibiscono per tutto il giorno e per tutta la notte. Morgan, i Tre Allegri Ragazzi Morti accompagnati dall’Abbey Town Jazz Orchestra-permettetemi un “wow”- , Zibba, Francesco Baccini, Ylenia Lucisano e tanti altri si esibiscono per il piacere di Piazza del Popolo che sabato notte è stracolma di ascoltatori. Non mancano però alcuni momenti di music off: la riunione del gruppo interparlamentare nella quale il Senaore Stefano Collina si permette di invitare al MEI, giacché alla festa c’era poca gente, l’onorevole Vendola; e lo showcase “Musica e Cinema al femminile” con protagoniste la cantautrice Torinese Silvia Tacredi e la regista Mirca Viola, accampagnate al piano dal maestro Rivetti. Nell’area dedicata a Freak Antoni, al quale è stato dedicato l’intero festival, suonano gli Skiantos. Vengono assegnati i premi per canzoni e video indipendenti, P.I.M.I. e P.I.V.I., Capibara vince la Targa Giovani e gliela consegna Eugenio Finardi. Oggi il programma sembra essere più serioso e i temi centrali saranno le innovazioni e le start up in ambito musicale. Intervengono Alessio Bertallot e Enrico Silvestrini. Dovrebbero persino consegnare premi a coloro che si battono per le mafie -cosa c’entra la mafia con la musica?c’entra- il che è perfettamente in sintonia con la linea di pensiero del festival che vuole fare suo tutto ciò che è categorizzabile nell’insieme culturale “indie”. Un festival che nasce indie e vuole continuare ad essere indipendente.

Ma la domanda è: indipendente da cosa?

Nel 1975 i sociologi Peterson e Berger teorizzano le etichette indipendenti come l’assoluto motore dell’evoluzione discografica. Già negli anni ’50 le etichette indie (termine che avrà un’appartenenza culturale pseudo radical chic solo quarant’anni dopo) sono le responsabili della diffusione del rock and roll. In fondo non è Sam Philips della Sun Records di Memphis a spalancare le porte degli studi a Elvis Presley e poi a Johnny Cash? In fondo la Decca Records (considerabile in maniera anacronistica come una major) aveva snobbato i Beatles…
Le decadi passano e arrivano impietosi gli anni ’80 che rappresentano la fine dell’innovazione musicale. La disco-music fa girare i soldi grossi e quelle che iniziano ad essere major sempre più major (cioè con possibilità d’investimento sul breve periodo sempre maggiore rispetto alle etichette più piccole) lo sanno e iniziano a sfornare un artista dietro l’altro, uno simile all’altro, usando come campagna marketing il mezzo più egemonico che, allora, un’impresa potesse utilizzare: la televisione. Dopo dieci anni non se ne può più e le etichette indipendenti riassumono la loro antica funzione e tirano fuori roba come il grunge, il punk, l’alternative (o per lo meno gli inizi di quello che verrà poi chiamato alternative rock), il trip hop e qualcosina di urban. La gente però guarda MTV (che ormai è una realtà cosolidata), ha troppo in mente la figura estetica romantica della rockstar come lo era Elvis, come Plant, Lennon e gli artisti, loro eredi, vogliono vivere come loro. La musica cede il passo alla fama e l’ago della bussola punta il contratto discografico con più zeri. Si chiamano major perché offrono più zeri e, soprattutto, danno più possibilità di aggiungerne. Diventa una questione di costi fissi e quindi una gara a-chi-ha-più-soldi; in Italia, ad esempio, chiude la Contempo Records. Si palesa dunque il divario tra major e “indie”, termine che ormai diventa una bandiera e un movimento culturale. Dunque Keith Negus, nel 1996, divide il mercato discografico in due blocchi: un sub-strato di produzione nel breve periodo, nei quali operano gli indipendenti; e i piani alti, mondiali, della distribuzione che, visti i costi dei passaggi televisivi e radio, solo le cosiddette major possono permettersi. Poi il nuovo millennio afferma il web. Youtube. Lo streaming. Facebook. Si potrebbe dare uno scossone all’industria, si potrebbe ambire ad un mercato a concorrenza perfetta poiché nel frattempo i costi di produzione, registrazione e stampa si sono abbassati e le molteplici soluzioni rendono tutto più democratico. E invece no. Le major continuano ad accaparrarsi gli scarti di una televisione senza futuro, sempre meno egemonica, sempre meno di qualità; e gli indipendenti continuano a nascondersi dietro la noemea “indie” perché è cool, perché è alternativo, perché è figo, perché è indie. Il web ovvia a quel problema che Negus riconduceva alla “distribuzione globale” eppure la vecchia e quindi obsoleta categorizzazione permane e addirittura diventa fregio per l’uno e per l’altra sponda. Per l’uno perché è figo, perché è cool, per l’altro perché si fa i soldi grossi (anche se non più come una volta), perché va in TV e “TV” vuole dire fama. A Faenza di questo oggi se ne parlerà e se ne è parlato già sabato in alcuni momenti di music off ma di sicuro non abbastanza e non in maniera incisiva. Oggi è possibile registrare un artista in Mozambico e fargli fare un live-stream-concert in Giappone, con annessa campagna di web-marketing in Europa. Visto che l’aspirazione indipendentista necessita di essere minacciata da un’egemonia (in questo caso in evidente fase di decadimento) per sussistere; poiché celarsi dietro certe bandiere è vintage (non certo nel senso positivo); e poiché è imbarazzante che in Italia i primi ad usufruire del meccanismo web seriamente e quindi con profitto mediatico siano stati Grillo e Casaleggio, che i discografici, i più “piccoli”, si facciano una domanda e diano dunque peso alle parole che portano tatuate sul petto. Bella la festa, bella Faenza, bravi tutti ma è già la storia della musica a dimostrare che la supremazia qualitativa della musica appartiene a quelli che si fanno chiamare indipendenti. Ora facciamo un passo in avanti.
Ma indipendenti da chi?

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