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The American debate: intervenire militarmente in Siria?

Creato il 17 settembre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Davide Borsani

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Uno degli errori più diffusi nell’analizzare la politica estera degli Stati Uniti, soprattutto in chiave comparatistica, è certamente quello di semplificare e ricondurre il processo di decision-making alla contrapposizione tra Repubblicani e Democratici. Come ampiamente dimostrato dalla storiografia, il vero e sostanziale iato – sin dagli albori della Repubblica – si materializza però tra realisti e idealisti e, per diversi gradi a seconda dei momenti storici, tra internazionalisti ed isolazionisti. Il dibattito sul ruolo che gli Stati Uniti dovrebbero adottare nei confronti delle attuali vicende siriane rispecchia, ancora una volta, tale trasversale cesura (in particolare,tra realismo vs. idealismo) che appare in grado di unire, ma anche dividere all’interno, i due partiti. In effetti, come confermato da un recente conteggio del Washington Post dei membri del Congresso pro e contro l’intervento militare, tanto i senatori quanto i deputati di ambo le fazioni si dividono o si uniscono al di là della fedeltà alla leadership politica (od intellettuale) del partito [1].

All’interno del Grand Old Party, la corrente ‘idealista’ neoconservatrice – nonostante l’esperienza non certo positiva dell’amministrazione di George W. Bush – è ancora in grado di produrre una sonora eco e di esercitare una notevole influenza. Il Senatore John McCain, rivale di Barack Obama nella corsa del 2008 alla Casa Bianca e frontman politico di tale corrente, durante gli ultimi due anni ha ricoperto un ruolo centrale nel sollecitare il proprio partito, ma anche il Paese, a sostenere la necessità dell’intervento militare in Siria al fine di favorire un regime change in chiave, ovviamente, democratica. Come ha recentemente dichiarato – supportato dallo Speaker della Camera dei Rappresentanti, John Boehner – «I am against delaying reaction to what is a massacre of a thousand people. […] The only way you’re gonna solve this is help those people overthrow Bashar al-Assad» [2]. Al suo fianco, numerosi esponenti dell’élite intellettuale neoconservatrice – come Robert Kagan, William Kristol e Karl Rove – hanno firmato sul Weekly Standard una lettera, indirizzata al Presidente Obama, affermando che «the United States and other willing nations should consider direct military strikes against the pillars of the Assad regime […] and help shape and influence the foundations for the post-Assad Syria»[3].

Il medesimo documento è stato inoltre sottoscritto da esponenti intellettuali del mondo liberal – promotore dei diritti umani e corrente politica tra i democrats – come Marty Peretz, Leon Wieseltier e Bernard-Henri Levy. Proprio l’internazionalismo (ed eventualmente interventismo) umanitario dei liberal tende a convergere verso la Freedom Agenda neoconservatrice incentrata sul regime change in nome dei valori democratici incarnati dall’ ‘eccezionalismo’ americano. Per entrambi gli orientamenti, difatti, il ‘bene’, espresso dai valori democratici e dal rispetto dei diritti umani, è naturalmente portato alla sconfitta del ‘male’, autocratico e repressivo, fatto che genererebbe un nuovo e stabile ordine mondiale plasmato dagli Stati Uniti e fondato sulla libertà in versione americana. Per utilizzare un’espressione rimasta in voga per quasi due decenni, si tratterebbe della End of History.

Non è dunque casuale che, ai piani alti dell’amministrazione Obama, la National Security Advisor, Susan Rice, e l’Ambasciatrice presso le Nazioni Unite, Samantha Power, entrambe liberal per vocazione, duplichino la posizione del repubblicano McCain. Se la Power, in un recente speech, ha dichiarato che la «Syria is important because its people, in seeking freedom and dignity, have suffered unimaginable horror […] Any military action will be a meaningful, time-limited response to deter the regime from using chemical weapons [… to] degrade his ability to strike at civilian populations by conventional means [… to] reduce the regime’s faith that they can kill their way to victory» [4], la Rice ribadiva il concetto pochi giorni dopo di fronte alla platea del think tank New America Foundation: «Time and again, we have seen what happens when the world fails to respond to horrific abuses on the scale we saw in Damascus. [… T]his cannot stand. Not in the 21st century. Not given the values and principles that we as Americans hold dear. As the one indispensable leader in the world, the United States of America can and must take [military] action» [5].

Così come il sostegno all’azione militare è trasversale ai partiti, allo stesso modo lo è però la sua contrarietà. Tra i Repubblicani, una tra le voci più altisonanti che respingono tale presunta necessità è quella del Senatore del Kentucky, Rand Paul, che su Time in un op-ed dal ‘sapore’ di Realpolitik ha scritto: «War should occur only when America is attacked, when it is threatened or when American interests are attacked or threatened. I don’t think the situation in Syria passes that test. […] Even the State Department argues that “there’s no military solution here that’s good for the Syrian people, and that the best path forward is a political solution. ”The U.S. should not fight a war to save face» [6]. Un’opinione condivisa dal Senatore democratico del New Mexico nonché membro della Commissioni Esteri del Senato, Tom Udall, che, dopo aver votato ‘No’ alla bozza di risoluzione interventista promossa da McCain, ha dichiarato: «Assad’s use of chemical weapons against his own people is an atrocity. […] But a limited U.S. strike is unlikely to eliminate chemical weapons or save lives, and it is a dangerous step for the region. […] The administration has not made a credible case for military strikes» [7].

Con un peso specifico ancora maggiore sono intervenuti nel dibattito personaggi del calibro di Henry Kissinger e Brent Scowcroft, in passato membri di spicco delle amministrazioni repubblicane in qualità di National Security Advisor (e Segretario di Stato, per Kissinger), che oggi, dalla scranna degli intellettuali ‘realisti’, appaiono ancora in grado di influenzare le dinamiche all’interno del Grand Old Party. Se già in gennaio, al World Economic Forum di Davos, Kissinger dichiarava che «I urge that the administration not intervene militarily. If it does, it will find itself in the middle of a bitter ethnic conflict» e preferiva, al contrario, lavorare diplomaticamente al fianco del Cremlino [8], pochi mesi dopo Scowcroft ribadiva il concetto al Wall Street Journal: «If we actively participate, as many say, in Syria, then we’re going to own Syria. And we don’t know how to solve the Syrian problem […] the best thing we can do and that is to try and get the Russians to work with us for a cease-fire» [9].

Sulla sponda democratica, assai critico dei potenziali risvolti di un intervento militare americano si è rivelato l’ex National Security Advisor di Jimmy Carter, il ‘realista’ Zbigniew Brzezinski. In un’intervista rilasciata a The National Interest, ha affermato: «I’m afraid that we’re headed toward an ineffective American intervention, which is even worse. […] So at best, it’s simply damaging to our credibility. At worst, it hastens the victory of groups that are much more hostile to us than Assad ever was. I still do not understand why […] we concluded somewhere back in 2011 or 2012 […] that Assad should go»[10]. Nella medesima intervista, Brzezinski rispondeva alla domanda sull’allineamento ‘idealista’ tra liberal e neoconservatori definendolo «an extremely simplistic understanding of world affairs, and with still a high confidence in America’s capacity to prevail, by force if necessary. I think in a complex situation, simplistic solutions offered by people who are either demagogues, or are smart enough to offer their advice piecemeal, it’s something that people can bite into» [11].

Tuttavia, se tale allineamento ha avuto e mantiene una non trascurabile presa tra l’establishment, lo stesso non può dirsi dell’opinione pubblica americana nel suo complesso, il cui immaginario è ancora caratterizzato dalla memoria dell’Iraq e dal ‘pantano’ afghano. In un contesto generalizzato di understretching della potenza statunitense, laddove gli elettori stanno domandando al Presidente di concentrarsi in primis sulle questioni di politica interna [12], un sondaggio del 9 settembre per la CNN ha mostrato che, anche in caso di risoluzione favorevole del Congresso all’intervento in Siria, il 55% degli americani sarebbe contrario rispetto ad un 43% favorevole; di fronte all’opposizione del Congresso, i contrari salirebbero al 71%. Una percentuale simile (72%) ritiene che, a prescindere, l’attacco militare non sortirebbe alcun effetto [13].

Di fronte ad un Paese diviso, tanto tra le sue élite quanto tra i suoi cittadini, su una issue che non è stata generalmente valutata come ‘vitale’ per l’interesse e la sicurezza nazionale – il primo e principale punto d’attrito per un qualsivoglia paragone con l’invasione dell’Iraq –, l’iniziativa diplomatica di Mosca, che sta avendo luogo in questi giorni al fine di evitare l’intervento americano – che, ricordiamo, avrebbe anzitutto ripercussioni negative sugli stessi interessi russi – toglie pressione a Obama, sottraendolo al ginepraio cui il superamento della ‘linea rossa’, che si era auto-imposto, sull’utilizzo delle armi chimiche da parte del regime di al-Assad lo aveva relegato. Un effetto collaterale dell’iniziativa di Vladimir Putin, quindi, sarebbe proprio il save-face agli Stati Uniti, alla loro credibilità, che consentirebbe da un lato ad Obama di non sanzionare un’opzione controversa e impopolare; dall’altro, a Washington, almeno indirettamente, di mostrare che la sua potenza militare, o quantomeno il suo ipotizzabile utilizzo, è ancora in grado di esercitare un ruolo di paramountcy in Medio Oriente, determinandone le dinamiche. Quanto ciò sia davvero reale, però, è oggi tesi da dimostrare.

* Davide Borsani è PhD Candidate in Storia delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali (Università Cattolica del Sacro Cuore)

Segui @borsani_davide

[1] Where the votes stand on Syria, in “The Washington Post”, 10 settembre 2013

[2] John McCain On Syria: ‘We Can’t Stand By And Watch This Happen’, in “The Huffington Post”, 28 agosto 2013

[3] Experts to Obama: Here Is What to Do in Syria, in “The Weekly Standard”, 27 agosto 2013

[4] Samantha Power’s case for striking Syria, in “The Washington Post”, 7 settembre 2013

[5] Susan Rice speaks on Syria, full text, in “Politico”, 9 settembre 2013

[6] Senator Rand Paul: Why I’m Voting No on Syria, in “Time”, 4 settembre 2013

[7] Sen. Udall: ‘We aren’t acting in self-defense’, in “USA Today”, 10 settembre 2013

[8] US needs to work with Russia to end Syria fighting — Kissinger, in “Gulf News”, 26 gennaio 2013

[9] Scowcroft Argues for Diplomacy in Syria, in “The Wall Street Journal”, 23 maggio 2013

[10] Brzezinski on the Syria Crisis, in “The National Interest”, 24 giugno 2013

[11] Ibid.

[12] Un recente sondaggio del Pew Research Center ha evidenziato che nel 2013 la percentuale è in costante aumento dallo scoppio della crisi finanziaria. Oggi è l’83% degli americani a chiedere un maggiore focus sulle vicende dentro i confini nazionali, rispetto ad un opposto 6% che volge lo sguardo al mondo. Cfr. A. Kohut, American International Engagement on the Rocks, ‘Pew Research: Global Attitudes Project’, 11 luglio 2013

[13] ORC/CNN Poll, 9 settembre 2013

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