Ogni vita ha il suo destino, ma per il sig. Freeman e il signor Obstain sarebbe più giusto dire che ogni vita ha le sue caselle, stando a quanto accadde quella vigilia di Natale nella fattoria di proprietà del signor Obstain, tutta presa, come il solito, dalle compere, dalle discussioni e dai saluti frequenti cui si accompagnava un sorridente: ”Buon Natale". E quel Natale aveva tutta l’aria di esserlo veramente buono, perché la raccolta di cotone quell’anno era stata eccezionale, sia grazie all’impegno dei coloni, sia grazie all’impegno personale del proprietario. Insomma, tutto era al suo posto quella vigilia, compreso i regali che il sig. Obstain aveva già scelto e consegnati con cura secondo le esigenze di ogni famiglia. Tutto perfetto, anzi un inizio partita perfetto. Ma facciamo un passo indietro.
In quella piantagione di cotone il sig. Freeman e il sig. Obstain appartenevano certamente a due diversi mondi: il primo a quello della schiavitù; il secondo a quello della libertà. Costretti entrambi in quel piccolo spazio che era la fattoria, essi erano, a loro modo, gli alfieri delle rispettive comunità, contendendosi le stesse caselle. Ma sarebbe improprio dire che fossero nemici. Erano solo spinti da forze che loro stessi ignoravano e che non potevano controllare. Mediavano con se stessi ogni mossa azzardata che il destino gli metteva di fronte, consci che la partita vera, in fondo, era giocata altrove.
Si è obbligati a dire questo a onor del vero perché, appunto, non erano nemici, anzi spesso avevano larghi spazi di amicizia e d’intesa dove cimentarsi ognuno nella propria specialità: il sig. Freeman la mediazione, la pazienza e la capacità di soffrire senza battere ciglio; il Sig. Obstain l’entusiasmo, lo sprezzo del pericolo e l’avventatezza. Quest’ultima lo faceva davvero apparire come un alfiere bianco sempre pronto a far bella mostra di sé, ma non per vanità: per lui ogni occasione era buona per dimostrare il suo valore e il suo coraggio senza con questo scivolare nel narcisismo. Ad esempio, se ce n’era bisogno, era il primo a essere lungimirante, mentre qualora la situazione lo chiedesse si faceva trovare pronto per la modernità, per poi di nuovo scendere in una corsa folle verso le caselle di partenza e assolvere la tradizione da ogni colpa, o almeno da quelle che fino allora gli aveva imputate.
La sua fattoria era un modello per i neri, ricca com'era di aperture ai loro diritti tanto da aver creato più di un mugugno nei conservatori; ma era anche una specie di gioco di cui il sig. Obstain era il proprietario e i coloni le pedine, che muoveva a suo piacimento, ma non a capriccio. E sarebbe sbagliato parlare di poca serietà, perché non erano mai mancate le cose necessarie a nessuno dei coloni, si trattasse di cure mediche come delle scuole. Insomma il sig. Obstain era un gran bell’alfiere bianco: impavido, penetrante determinato ad affermare se stesso, ma sempre corretto, un gran signore.
Il sig. Freeman era il suo omologo nero. Il colore della sua pelle richiamava le notti d’Africa: immense, silenziose ma talvolta ricche di cori, balli e canti. Un’esplosione di gioia primitiva, ancestrale vissuta in un gruppo che non ammetteva il protagonismo. La tribù, la comunità e il benessere di tutti come standard da conseguire senza inutili eroismi. E pensare che il sig. Freeman avrebbe potuto ben essere un leader. La sua comunità ne aveva gran rispetto. Non per i suoi lunghi discorsi, ma per i suoi lunghi silenzi, che avevano obbligato più di una volta i membri più anziani a chiedere il suo parere, perché spontaneamente avrebbe taciuto, anche se la questione era importante. Il sig. Freeman si muoveva bene a difesa delle pedine, al contrario del Sig. Obstain sempre preso dalle imprese eroiche in solitaria; non minacciava mai i pezzi suoi pari se non necessario, figuriamoci quelli superiori. La sua specialità insomma erano gli spazi stretti, non le grandi diagonali dell’eroismo. Per questo era un ottimo soldato di trincea che sapeva fare il passo indietro di fronte al pericolo se il premio era la sua fama; ma si gettava a corpo morto nella battaglia anche per difendere un solo pedone che gli era stato assegnato. Le sue doti di alfiere nero erano dunque la pazienza, la prudenza e un coraggio ragionato.
Quella vigilia di Natale si trovarono, purtroppo, uno di fronte all’altro per motivi solo in apparenza banali. Infatti, scelti con cura famiglia per famiglia, il sig. Obstain aveva già consegnati tutti i regali personalmente, come era suo stile. A quella del Sig. Freeman erano stati consegnati per ultimi perché al sig. Obstain piaceva intrattenersi con il sig. Freeman. Fu un colloquio di poco più di mezz’ora dove i due si scambiarono le relative impressioni sul lavoro, le condizioni della fattoria e le persone che ci vivevano. Poi si salutarono con un'anacronistica stretta di mano e il sig. Obstain se ne tornò a casa a cavallo per non uscirne, come vedremo, mai più.
Il sig. Freeman, infatti, vi si recò riportando il dono che aveva appena ricevuto. Bussò alla porta e il sig. Obstain apparve già vestito per la grande cena e la messa seguente. La sua casa era piena di parenti e amici, ma lo ricevé molto cordialmente, quasi felice di quell’inaspettata visita natalizia. L'occhio del sig. Obstain andò subito al pacco che il sig. Freeman teneva in mano. Ne riconosceva la carta, nonostante che l’involucro fosse stato rotto dalla furia dei bambini.
“Qualcosa non va sig. Freeman? Non è piaciuto il mio regalo ai bambini?” chiese perplesso il sig. Obstain.
“No, al contrario, è piaciuto moltissimo, più di ogni altro; ma è proprio per questo che glielo rendo: è troppo bello, noi non lo meritiamo. Non si offenda se glielo restituisco. Adesso devo andare, sig. Obstain, i miei bambini mi aspettano e lei ha molti ospiti. Buon Natale di nuovo sig. Obstain”
“Buon Natale sig. Freeman” disse con un filo di voce il sig. Obstain.
Appena uscito dalla porta quell’ospite trasportato lì da un vento che si era fatto gelido, il sig. Obstain si ritirò in camera sua congedandosi da tutti gli ospiti con la scusa di un malore improvviso. Non partecipò né alla cena né alla Messa, ma si chiuse in camera sua. Sul tavolo, al centro, la scatola regalo; ai lati due sedie; il tavolo tirato a lucido rifletteva confusa la sua sagoma. Viveva la scena come ipnotizzato, muto e senza il coraggio di sedersi. Una sola parola gli scorreva nella mente, scritta con abilità calligrafica sublime: tra quattro parentesi graffe color oro campeggiava al centro la scritta “The life”, il nome del gioco.
Capì a un tratto di essersi avventurato troppo oltre nella selva dei piccoli pedoni neri la cui unica difesa era il sig. Freeman e il sig. Freeman non aveva esitato ad abbatterlo restituendogli “The life”.
Il sig. Obstain uscì molti mesi dopo da casa sua completamente trasformato, ma nessuno seppe perché; anzi nessuno seppe mai che quella notte di Natale il sig. Obstain e il sig. Freeman giocarono una partita a “The life” e che il sig. Freeman aveva vinto.