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In origine The Missing doveva rappresentare un dittico sulla scomparsa con Goodbye Dragon Inn (2003), poi le cose andarono diversamente per vari motivi e non se ne fece nulla, tuttavia a differenza di ciò che si potrebbe pensare, questo film non è una semplice copia delle opere by Tsai, bensì un ulteriore tassello, a tratti davvero emancipato, in quell’ormai famoso mosaico di solitudini dentro Taipei. Ovviamente ci sono dei rimandi iconografici al maestro di Taiwan – la prima ripresa che avviene da dietro un acquario e l’ultima da sopra una grande pozza d’acqua racchiudono la pellicola fra due estremi… liquidi –, nonostante ciò Kang-sheng compie un lavoro apprezzabile donando nuove interessanti sfumature ai dettami del suo mentore.
I piani sequenza iniziali in cui la nonna (interpretazione super di Lu Yi-ching, la madre in molti film di Ming-liang) cerca disperatamente il nipotino perduto sono una bella novità perché raramente si era visto tanto movimento nei set di questi autori, e che movimento! L’obiettivo segue a distanza la donna che appare e scompare senza tregua tra le collinette del parco giochi fra l’indifferenza delle persone. Non manca un goccio di ironia (senza dubbio tragica) dove la negligenza dell’anziana nei confronti del bambino smarrito è dovuta ad un attacco di diarrea fulminante. Bisogna saperci fare nell’unire il dramma alla comicità, e Lee ci riesce.
Inoltre in questa intervista si può leggere una risposta interessante ad una domanda che sorge spontanea: “Quali sono le differenze che vedi tra il tuo stile e quello di Tsai?”. La replica non tarda ad arrivare: “C’è più narrazione nel mio film”. In effetti è così, nonostante l’immancabile presenza di silenziosi long take, la vicenda ha un ritmo (prendete con le molle questa espressione) che rende più accessibile il racconto diviso tra due fuochi.
Eggià perché la storia, come da tradizione, scorre su un doppio binario in cui viene mostrata la doppia faccia di una stessa moneta, quella dell’abbandono e quindi, ancora una volta, della solitudine. Se da una parte c’è la nonna che vaga nella metropoli cercando il nipote – a proposito, la scena in cui parla al marito defunto è un momento cinematograficamente toccante –, dall’altra c’è la storia di un ragazzino alienato dalla realtà per colpa dei videogiochi che ha perso il nonno – a proposito, brillante l’inquadratura che disegna prospettivamente la testa del ragazzo nello schermo del pc durante uno sparatutto in prima persona –. È dunque un gioco d’incastri, di eguali misere realtà, che ancora come da tradizione si incontrano casualmente (eppure nulla pare accadere per caso a Taipei), o meglio si rincorrono nel finale nel quale giungono in quello specchio d’acqua ante litteram di I Don’t Want to Sleep Alone (2006). Poi c’è uno stacco, la visuale si fa aerea e diventa anticipatrice della conclusione di Face (2009): due ombre passeggiano nella notte. La piccola (tradizionale, ancora) beffa arriva in sordina, e pur non avendo la potenza dei suoi “fratelli maggiori” è capace di farsi apprezzare.
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