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Nelle intenzioni del regista Ben Hopkins nato a Hong Kong nel ’69 e poi trasferitosi in terra britannica per gli studi, c’è quella di inscenare una variazione sul tema dell’apocalisse (importante notare la data di produzione) edificando il film in un continuo susseguirsi di situazioni paradossali intrise di humor specificatamente inglese.
L’opera si apre con un tizio che preso un taxi dà immediatamente sfoggio del suo potere, ovvero l’uomo, che probabilmente tanto uomo non è viste le voci off che precedono la sua apparizione (he’s coming, he’s coming!), è in grado di prendere fisicamente il posto di un’altra persona. Dopo il tassista ripeterà l’operazione sostituendosi a un ministro, un bambino, un vecchio, una guardia, ecc. Casualmente sulla sua strada incrocia un ispettore di polizia cieco che per indagare sulle sue malefatte utilizza metodi… esoterici.
Ambientato in una Londra bicromatica il film vive nello spazio di un countdown che segna l’attesa di un’eclisse solare accompagnata da un programma televisivo che con vari buffi ospiti, c’è un rabbino resuscitato per l’occasione, discute dell’eventuale prossima fine.
Obiettivo del film sembrerebbe quello di denudare l’umanità intera dai falsi valori a cui è incollata – ad esempio c’è una madre che resta impassibile dinanzi allo svenimento del figlio per poi disperarsi letteralmente di fronte allo scoppio della tv, ma gli esempi sono disseminati un po’ ovunque: bimbo rattristato dalla rottura del suo Tamagotchi, un gruppo di persone imbambolate dalla voce suadente della speaker della metropolitana, le due guardie che annoiate spiano le vite degli altri sugli schermi –, in un quadro dove si affacciano molteplici personaggi così come sono svariati i generi a cui la pellicola strizza più di un occhio senza riuscire ad avere una sua identità definibile. Spruzzate di noir anni ’50 con le vecchie illusioni automobilistiche dove non è la macchina a muoversi ma i fondali ai suoi lati, scampoli di black comedy, a tal proposito un film in cui poter trovare delle affinità è Songs from the Second Floor (2000), una parentesi di cinema muto e una di… boh, fantasy nonsense?… Dove il poliziotto cieco precipita in un limbo quasi infernale in cui trova l’Astral Child, pupazzo mostruoso con le fattezze di un neonato.
Non mancano accorgimenti tecnici diversificati: nella scenografia (giornalisti ridotti a sagome, allegoria di Hopkins?), nella colonna sonora (non è facile trovare in un film un disco techno sui 140 bpm), e più in generale su tutta la superficie dell’opera, addirittura la porzione di tempo in cui un conduttore sta pronunciando una parola viene scratchata per alcuni minuti. Anche in profondità le cose non hanno senso unitario ma spezzettato, tuttavia essendo questo un film sulla fine del mondo la sua conclusione non delude le aspettative risultando originale, tanto che Vincenzo Natali potrebbe essere in debito di riconoscenza per il suo Nothing (2003).
Adatto a chi vuole sperimentare senza aspettarsi grandi capolavori.
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