Magazine Cinema
Svezia, Norvegia, 2014
75 minuti
Marianne è una donna di sessantotto anni che, affetta da una malattia incurabile, scopre di avere soli tre mesi di vita. Angosciata dalla sua condizione decide di sottoporsi a un trattamento terapeutico sperimentale a base di psilocibina; una sostanza presente in alcuni funghi psichedelici capace di migliorare le facoltà mnemoniche, e indurre così a positivi cambiamenti dello stato d'animo. Lo scopo, è di cercare attraverso l'ipnosi, un riparo alle possibili colpe del passato (l'esito negativo del proprio matrimonio), prima della fine. Affidatasi alle cure dell'esperta Eva, la dottoressa che l'ha segue, Marianne penetra nel suo subconscio e intraprende un viaggio a ritroso nel tempo, seguendo il percorso della memoria che la riporta a confrontarsi con sè stessa e con il marito, quarant'anni prima, durante un periodo certamente critico della loro relazione...
Cinque anni dopo il melico Burrowing, co-diretto con Fredrik Wenzel, lo svedese Hellström indaga nuovamente nei profondi disagi esistenziali di quelle persone la cui vita sembra aver offerto il meglio (una bella casa, una famiglia, dei bambini) ma che in realtà funge da involucro di apparente felicità ad un inafferrabile vuoto interiore. E la soluzione a tali malesseri, nel cinema di Hellström, sembra risiedere ancora una volta nell'isolamento dalla società, o più concretamente, in una sorta di ritiro spirituale. Tanto meditativo nell'opera precedente (il bosco, luogo confinante e al contempo sconfinato, dall'asfissiante quartiere di villette tutte uguali), quanto simile a una catarsi in questo The Quiet Roar dove, fin dalle prime inquadrature, sembrano esserci tutte le condizioni ideali per una perfetta armonia coniugale/famigliare. Almeno, finchè il progressivo viaggio/racconto di Marianne (distesa sul letto in stato ipnotico, con tanto di benda a coprirne gli occhi) non riporta a galla le reali incomprensioni all'interno di un matrimonio, che pare trovare la propria sintonia esclusivamente attraverso i piaceri dell'erotismo, fino alla sua nostalgica dissoluzione. Assistiamo quindi alla ricostruzione di un preciso periodo della vita mediante i ricordi di Marianne, che (ri)trovano soggiorno nell'elegante villa isolata tra la magnetica imponenza di una catena montuosa, e le sue profonde cascate. Si tratta di un paesaggio chiaramente simbolico del viaggio di "quiete" interiore che la donna è fermamente decisa a recuperare, cercando una riconciliazione con sè stessa; una sorta di palliativo ai possibili errori commessi. Per Marianne, è come regredire ad una condizione di pace uterina prima di affrontare la morte, con la maggior serenità possibile. Un'auto-purificazione che trova chiara metafora nella suggestiva sequenza del lago: "cammino nel bosco finchè mi trovo di fronte a un corpo d'acqua, sembra acqua piovana, è come un piccolo lago nella foresta. Mi immergo, ma se volgo lo sguardo verso il basso, non sembra esserci alcuna vita". Probabilmente, meno lirico di Burrowing (ma in quel caso, le celestiali musiche composte da Erik Enocksson infondevano quel tocco di maestosità in più) ma sicuramente più solido a livello narrativo e dal punto di vista introspettivo. Nonchè, ugualmente degno di un'armoniosità estetica consolidata, dove a padroneggiare resta la fluttualità delle carrellate; in direzione dei monti, del cielo, di una donna sull'orlo del tramonto che ne (ri)contempla gli ammalianti spazi, come quel ruggito interiore che ora, sta finalmente per ritrovare la quiete.
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