Magazine Racconti

The Sunroom

Da Fabry2010

The Sunroom
Di Matteo Telara


The Sunroom

“Devi smetterla di scrivere per un po’” aveva detto la mia compagna. “Devi provare a distrarti con qualcosa d’altro.”
“Come?”
“Qualcos’altro. Leggi. Prendi un libro che ancora non sei riuscito a cominciare. Qualunque cosa.”
Ed eccomi allora, lo scrittore incapace di scrivere storie che provava a leggerne una.

Dunque dovete sapere che la mia dolce metà aveva un debole per gli angoli della casa, amava le decorazioni, sosteneva la bellezza dei dettagli. Una collezione di vecchie scatole di latta qua. Le monetine dell’I-Ching là. Una raccolta di libri illustrati, sapientemente mischiata a manuali di fotografia, riflessioni sull’erotismo, saggi di astrologia. Di tutte le sue creazioni, ad ogni modo, di tutti i suoi segni distintivi, di tutto quel suo fulgore di bellezza e personalità, il capolavoro assoluto era senza dubbio la sunroom. Lei l’aveva ribattezzata così, ma di stanza aveva poco o niente. Piuttosto, era la parte finale di una protuberanza della casa, uno spazio atipico, via di mezzo tra corridoio ed entrata, che si affacciava sul giardino come il ponte di commando di una nave sopra il mare. Intinta nel verde senza esserne intaccata, gli alberi da frutto ben visibili in secondo piano, aveva il muro da una parte e tre ampie vetrate (di cui due ad angolo) sull’altra. Queste finestre erano circondate da un glicine folto e vibrante, indeciso tra il correre a perdiocchio sui bordi dei vetri o l’ingoiarli d’un fiato. Un frammento perfetto di mondo, incastonato in uno spazio di vetro e luce.
Avevo passato pomeriggi interi a cercare un’espressione in grado di tradurre in italiano quel sunroom, senza trovare altro che “stanza-sole” o “veranda d’interno”. Nulla che riuscisse veramente a soddisfarmi. Niente che fosse capace di comunicarne il senso di serenità, l’effetto di partecipazione.
Anne ci aveva accomodato nel mezzo un microscopico divano a due posti, very cosy aveva detto, comprato per pochi dollari in internet e posizionato tra le finestre e il muro. Aveva detto: “il luogo migliore in cui andare a leggere un libro.”
Così, invece di ricominciare a scorticarmi i capelli davanti al computer, in cucina, mi ci ero andato a sedere con un volume tra le mani.

Di solito non mi interessavo di poesia. Confesso tutt’ora che non è la prima delle cose che mi capitano tra le mani quando transito davanti ad una libreria. Di solito preferisco la prosa. Preferisco storie fatte di nomi, di eventi, di luoghi, di dialoghi, di gente che si trova nei casini o che sta cercando di uscirne. Cose di cui anch’io scrivo. O almeno, provo.
Ma quel giorno avevo aperto un libro di Ovidio. Qualcosa, come anche aveva suggerito la mia compagna, che da tempo volevo leggere ma che per una ragione o per un’altra non ero mai riuscito a cominciare.
Ed ecco che neppure dieci, quindici righe dentro la prima elegia e quella roba aveva cominciato a vibrare, a fremere, come il tremolio di un labbro su di un grido muto. Nessun suono. Nulla tranne un rauco frusciare di membrane. Non era stato il rumore ad aver richiamato la mia attenzione, era stato il movimento. Era stato quel brivido sulla periferia del mio campo visivo, aggrappato sull’orlo della finestra. Quel domandare senza chiedere, quel gridare privo di strillìo.
Un insetto.
Grande e pieno che pareva il pollice di un contadino, e che poche ore dopo avrei scoperto essere stato una cicala – la mia dolce metà, sempre lei, lei sì che se ne intendeva, le era bastato sentirmelo descrivere, ancora sotto shock, per potergli dare un nome.
Questo insetto era rimasto intrappolato in una ragnatela.
Il corpo completamente libero, aveva le estremità delle ali appiccicate a due lunghi fili, spessi come spaghetti, tesi che parevano le corde da ormeggio di una petroliera.
Di tanto in tanto questo insetto si metteva a sbattere le ali con tutta la forza che trovava in corpo, e allora cominciava a farle vibrare orrendamente, quelle ali, e con loro tutto il resto. Cominciava a scuotere ali e corpo con fastidiosa e disperata insistenza. Con accanita testardaggine.
Fremeva allora in questo palpito esaltato per quaranta, cinquanta secondi, poi si placava. Frazioni d’attimo necessarie a valutare il da farsi, forse.
Riprendere fiato, richiamare energie.
E ricominciava.
Un infinito volo statico, al termine del quale non si era spostato di nulla. C’era un ché di tragico che non riuscivo bene a decifrare in tutta quella situazione, qualcosa, realizzai, a cui avrei fatto volentieri a meno d’assistere.
Cercai il ragno. Lo cercai a lungo – e mi ci volle parecchio per individuarlo, tempo durante il quale l’insetto si scosse più volte, lanciandosi in voli impossibili e ritorno – finché finalmente lo scovai. Era un cancro scuro tra il vetro e la cornice in legno della finestra. Di media grandezza, ricoperto da una peluria appena abbozzata, il ragno sembrava attendere, disinteressato a quanto stava accadendo a poca distanza da lui.
Mi avvicinai per guardarlo meglio, e notai con orrore che per niente intimorito dalla mia presenza (o forse cosciente dell’esistenza del vetro a farci da separé, come mi venne da pensare più tardi) non accennava a muoversi o a fuggire. Sembrava, anzi, che mi stesse volontariamente sfidando, mi ignorava, perfettamente immobile sulla conca di quel suo giorno fortunato.
Valutai dimensioni e angolature, considerai distanze e rapporti di forza, e conclusi che l’insetto era quattro, cinque volte la grandezza del ragno, ed essendo volto in direzione del prato, aveva il suo nemico alle spalle e il cielo di fronte.
“Buona fortuna,” pensai. E mi rimisi a leggere.
Non erano fatti miei. Non erano questioni di cui dovevo preoccuparmi. Erano cose normali, faccende quotidiane, eventi che in natura avvenivano ogni istante, parte dell’equilibrio e del tutto. Non c’era nulla di cui mi dovessi impicciare. Niente che dovessi o volessi fare.
Provai – davvero ci provai – a leggere.

Ma c’era sempre quel vibrare. C’era quel brivido che partiva e si interrompeva, si arrestava, ricominciava. Sull’angolo del mio campo visivo, impossibile da evitare, c’era quella cosa.
Mi voltai spalle alla finestra cancellandola dalla mia visuale, nell’assurda presunzione che bastasse non avercela davanti per smettere di ritrovarsela di fronte. Passarono istanti. Minuti che parvero giorni. Ma per chissà quale strano sortilegio non guardare era divenuta una maniera ancora più pressante d’osservare. Adesso avevo cominciato anche a sentire il suono delle sue ali, questa era la verità. – O forse era il battito del suo cuore? –  Un ronzio irritante, un incomprensibile alfabeto morse, sul retro della mia testa, alle spalle dei miei capelli, come incastrato nell’angolo più profondo e irraggiungibile di una grande cassa armonica. Che lo ignorassi o meno, c’era sempre quel lamento di sottofondo.
Posai il libro di fianco al divano e tornai ad osservare la scena.

In che maniera quella cosa fosse finita nella ragnatela, rimaneva per me un mistero. Come avesse fatto ad incastrarsi così, ad ali divaricate e corpo teso, in quell’assurda posizione da sacrificio biblico, ecco, proprio non me lo riuscivo a spiegare.
Per un istante l’idea di immortalare l’intera scena in uno scatto mi attraversò i pensieri. Ad essere un fotografo, ad avere la mia compagna lì presente – lei e la sua Canon, quella sì che era una combinazione vincente – magari sarebbe venuta fuori un’opera da National Geographic. Ma di fare fotografie, il sottoscritto non era capace. Ci avevo provato con risultati imbarazzanti (per me e per l’oggetto della mia visione) più di una volta, finché avevo deciso di lasciar perdere con buona pace del mio tempo libero e del mondo delle immagini.
Valutai il da farsi.
Considerai la possibilità d’ignorare l’evento, d’osservarlo con distacco partecipato, di tifare cicala, di supportare il ragno. Considerai di lasciare che la natura facesse il suo corso o di intervenire a modificarlo. Mi ripetei che tutto sarebbe comunque avvenuto. Mi convinsi, (me lo ripetei più volte, a mezza voce, come in una nenia che finì per andare a sovrapporsi a quella dell’insetto) che la mia presenza non aveva ragione di cambiare di una virgola lo svolgersi degli eventi.
“Questa cosa non mi sta chiamando” ragionai. “Non mi sta chiedendo aiuto, non si sta lamentando. È tutto nella mia testa.” Nessuno stava imprecando. Nessuno stava cercando di attrarre la mia attenzione. Quell’occhio d’insetto che sembrava fissarmi con un gesto d’implorazione, in realtà, non stava vedendo altro che un’ombra gigantesca e scura, che di tanto in tanto si avvicinava per poi allontanarsi. Nulla di mistico o di misterioso.
“Soltanto un piccolo animale intrappolato al di là di un vetro.”
Ma un pensiero, un assillo – l’assillo della reincarnazione – insieme ad altre moltitudini di ragionamenti di varia natura e provenienza, aveva cominciato a fare congrega nel retro della mia mente.
E se un giorno mi fossi ritrovato anch’io in difficoltà. Se un giorno anch’io fossi  rimasto intrappolato in bilico sull’orlo d’essere divorato. E d’un tratto avessi sentito la presenza di un qualcosa, una massa scura e informe, un’ombra che fattasi vicino avesse cominciato a dire, con voce calda, “ti ricordi quell’insetto intrappolato? Ero io.”
Cosa mi bloccava da tagliare la ragnatela e poi rimettermi a leggere? Se veramente di questo si trattava, di prendere un bastoncino e spezzare quei fili, cosa mi impediva di farlo?
Il ragno. Ecco cosa. – Lo realizzai con sorpresa, nell’istante in cui tornai ad osservarlo. – Era il maledetto grumo peloso che se ne stava rannicchiato di fianco allo stipite della finestra ad impedirmi di spezzare le catene. Il ragno che aveva costruito e atteso. Il ragno che aveva fatto il suo dovere. Il ragno che aveva il diritto di gustarsi la sua cena come il sottoscritto l’aveva di cucinarsi una bistecca ai ferri. Non era forse da ipocriti liberare un insetto da una ragnatela per poi comprare bistecche disossate al supermercato?
“Lasciare tutto così com’è” ripetei. “Lasciare che la natura segua il suo corso.”
E me ne convinsi. E me ne sentii certo. E per qualche minuto, per qualche lungo, maledettissimo minuto, riuscii addirittura a fingere d’essermene dimenticato.

Ora non so se avete presente il volo del calabrone di Rimsky Korsakoff. Sicuro che avete presente la sua versione al pianoforte di Rachmaninoff, ovvio che ce l’avete, ce l’hanno tutti. Nell’originale arriva un momento – uno dei tanti a dire il vero – in cui la melodia si incrina e quasi scompare, e tutto precipita distorcendosi, e d’un tratto ci si ritrova di fronte al retro di un sogno che fino a quel momento aveva avuto solamente un verso.
In quell’attimo io mi vedo alzare d’un tratto, andare in cucina, aprire il cassetto delle posate, estrarre due bastoncini da cibo cinese e, brandendoli come scimitarre, tornare verso la finestra e aprirla per metà. Mi vedo abbassare con decisione i bastoncini sui fili della ragnatela, spezzarli, separarne le estremità dal resto della struttura e ritrovarmeli appiccicati sulle punte di legno.
E comincio ad agitarli allora, i maledetti bastoncini. Prima con calma, poi con insistenza, poi con stizza, poi con violenza, senza riuscire a distaccarli dalla ragnatela. Continuo allora a scuoterli come in preda a un furore sconosciuto, contraendo labbra e mascelle mentre lo faccio, e l’insetto nel mezzo si mette a vibrare con ancora più ostinazione, a palpitare, ad emettere suoni. Finché all’ultimo strappo, ecco che finalmente vedo i fili staccarsi dal resto, la ragnatela spezzarsi, l’insetto cadere sul prato.
È a quel punto che arriva l’uccello.
Proveniente da chissà dove, sopra le nostre teste.
Nel momento in cui la cosa tocca tutta vibrante l’erba, una massa nera e veloce gli piomba addosso, la squarta a colpi di becco, letteralmente la dilania, e se la porta via, scomparendo nel luogo da cui era calata.
“Una cicala” mi avrebbe detto la mia compagna poco più tardi, di ritorno dal suo shopping. “Di sicuro era una cicala.”
Io avevo già da tempo ricominciato a scorticarmi i capelli davanti al computer in cucina.



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