Pubblicato da Andrea Sartori su gennaio 21, 2012
Non è un caso, d’altra parte, che Tizian e i suoi colleghi lavorino con la parola, con il linguaggio, ovvero con il dispositivo della comunicazione per eccellenza, che rende possibile il rispecchiamento del vero e che la criminalità organizzata teme al pari dell’azione investigativa, dei provvedimenti cautelari e ristrettivi.
Facendo la tara ai (presunti) protagonismi di Saviano, e rammentando piuttosto da dove trae origine la sua scrittura, occorre dire che è stato il giornalismo giudiziario sfociato anche in Gomorra, a riassettare lentamente – tanto in letteratura quanto nell’informazione – il rapporto tra le parole e le cose, tra i fatti e il linguaggio, tra la realtà e la necessità di esprimerla e comunicarla. Tizian non è solo, e non perché si trovi nel club tristemente esclusivo dei giornalisti sotto scorta, bensì perché l’Italia sta tornando a fare esperienza del bisogno di verità (la solidarietà fioccata sul web ne è una delle manifestazioni).
In letteratura, come in filosofia, gli estetismi post-moderni, fini a se stessi, di un tempo, non seducono più. Nella comunicazione giornalistica e televisiva, ci si vergogna ora di aver incensato tanto a lungo l’info-tainment, ovvero l’idea in realtà pre-illuministica, se non medievale, secondo la quale il peso specifico delle parole è sopportabile solo se viene spettacolarizzato, e quindi neutralizzato. Il fenomeno in corso attiene alla cultura del Paese, complice negli ultimi anni un ritorno ai fondamentali dell’economia (e quindi della vita di ciascuno), innescato da una crisi non priva, a sua volta, di connotati criminali.
Giuseppe Catozzella, con Alveare. Il dominio invisibile e spietato della ‘ndrangheta del Nord (Rizzoli, 2011), si è ad esempio mosso in uno slargo del vero aperto in Lombardia dall’azione giudiziaria della DDA, proponendoci un romanzo d’inchiesta che a tratti occhieggia l’auto-fiction. Nel libro, l’io narrante – alter-ego, non sappiamo fino a che punto, dello stesso Catozzella – vincola il proprio bisogno di verità alla necessità di rendere giustizia al padre, vittima di un episodio di malasanità imputabile a una gestione ospedaliera appaltata alla ‘ndrangheta. D’altra parte, il padre di Giovanni Tizian, come è stato reso noto, venne ucciso – vittima innocente della lupara bianca – nel 1989. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a uno scrivere dalle motivazioni profonde, esercitato da autori giovani, appartenenti a una generazione più volte definita «perduta», senza futuro, non a caso anche professionalmente «precaria». Eppure è attraverso questa generazione – sconfitta in partenza, si direbbe – che si è profilato sempre più un mutamento decisivo, consistente nell’attribuire al linguaggio quella valenza performativa e responsabile – da subito oltre la scrittura – che l’anestesia dell’esperienza degli ultimi vent’anni aveva cancellato, poiché innanzi al tragico era diventato sufficiente rimuovere e ridere. Verrebbe da chiedersi, retoricamente: chi altri potrebbe reagire, se non appunto chi non ha più nulla da perdere?
Inoltre, un romanzo di pura fiction come quello di Giorgio Fontana, Per legge superiore (Sellerio, 2011), non è affatto estraneo a questa ritrovata intimità con il vero e con la performatività responsabile della parola scritta, permette anzi di metterne in luce un lato fondamentale. Qui non abbiamo l’aderenza alla cronaca, ma un’aderenza d’altro tipo: quella dell’immaginario magistrato Roberto Doni alla destinazione compiutamente civile della sua professione, a un’idea corposa, per quanto fessurata di dubbi, di giustizia. Che quest’ultima sia ben più dell’espletamento d’un pratica quotidiana, garantita dal carattere routinario della mera osservanza della legge, è il vero concreto, il gesto peculiare a cui mette capo la scrittura di Fontana nel suo nuovo romanzo.
È insomma possibile, nell’Italia di oggi e ben al di là del singolo caso di Saviano, che verità e giustizia non siano percepite come parolacce brandite al pari di armi da fanatici forcaioli e fondamentalisti. Di conseguenza, anche lo scrivere letterario e romanzesco, come di fatto sta accadendo, ha nuova materia da metabolizzare, attingendola, forse per la prima volta, non dall’esemplarità eroica di una voce isolata, ma da un sentire diffuso che parteggia per la nettezza dei fatti, per l’approfondimento onesto di una realtà – anche quella complessa e a volte sfuggente dei fenomeni morali – a cui ci siamo scoperti attaccati come a una zattera di salvataggio, come a ciò che ci resta.