Se è vero, come è vero, che i matrimoni si sfasciano per il punto in cui premere il dentifricio, possiamo valutare lo stato di salute della giustizia italiana dall’uso che si fa delle toghe.
La toga, bellissimo simbolo di una giustizia di romane origini, viene oggi usata dagli avvocati civilisti solo avanti alle giurisidizioni superiori e quindi, per intenderci, non nei normali procedimenti in tribunale, che sono senz’altro i più comuni. Anche nella mia Corte d’Appello (Bologna) si utilizza solo in alcuni casi, fra cui i processi di diritto del lavoro che io presenzio molto di frequente.
Imputato e avvocati
La prima volta che andai ad un processo d’appello di lavoro ero una giovane praticante, accompagnata da un avvocato più esperto, il quale mi illustrava procedure e segreti di un mondo da scoprire. “Prima di andare in aula di udienza si va di qua a prendere la toga”: e andiamo a prendere la toga. Ci addentriamo in un labirinto e, fra un detenuto in manette e l’altro che passano, ci troviamo in uno sgabuzzino con una signora (“la cicciona”) che ci saluta, ci dà la toga e prende tre Euro; facciamo l’udienza e prima di uscire riportiamo alla signora la toga, con tanti saluti.
Acquistare una toga costa qualche centinaio di euro, usandola poco non conviene comprarla e poi pesa molto, portarsela dietro è scomodo…Così una dipendente del palazzo di giustizia (leggi: una dipendente pubblica) ha pensato bene di gestire un punto d’affitto abusivo di toghe (recuperate da magistrati o avvocati in pensione) proprio all’interno del palazzo di giustizia: gli avvocati vanno, pagano, prendono, combattono per il diritto, riportano e se ne vanno. Inutile aggiungere che tutti sapevano tutto, a partire da coloro che usufruivano del “servizio” (gli avvocati), passando per chi lo cogestiva e tollerava (personale dirigente, ordine degli avvocati ecc. ecc.): ha funzionato bene per anni.
La nostra cultura della legalità non è altro che questa: avvocati che entrano nei palazzi di giustizia per processi in cui difendono diritti secondo la legge (e davvero lo fanno, più spesso, nel migliore dei modi) passando prima ad affittare in nero la toga nello sgabuzzino, senza sconvolgersi e senza sconvolgere. Perché davvero siamo capaci di grandi cose, di lavorare sodo, di pagare i nostri debiti ed anche di sacrificarci, ma abbiamo sempre un alibi indistruttibile per giustificare forme di illegalità quotidiana, apparentemente banali e inoffensive: perché un conto è uccidere qualcuno, un altro è evadere un po’ d’IVA perché “con tutte le tasse che pago”.
Certo che è un’altra cosa ed è giusto che sia così: ma il vero dramma è la nostra convinzione che vi siano ragioni – per lo più soggettive o irrisorie – tali da renderci immuni dal rispetto di qualche regola di sana convivenza. Così, se la toga è costosa si può anche affittare in nero, se sono in ritardo al lavoro posso anche passare con un rosso, se ho bisogno stare a casa posso anche mettermi un po’ in malattia…
La storia delle “toghe rotte” (epiteto che ci siamo permessi di adottare dall’omonimo libro di Bruno Tinti, di cui vi consigliamo la lettura) è finita così: il mercato nero è cessato solo perché “la cicciona” è andata in pensione. A questo punto l’ordine forense ha assunto l’incarico e messo a disposizione dei colleghi un buon numero di toghe da prendere in prestito per andare in udienza (evviva): senonché nel giro di pochi mesi sono scomparse molte toghe, prese in prestito e non più restituite. È stato allora deciso di mettere un deterrente a mo’ di monetina nel carrello del supermercato: al momento del prestito l’avvocato deve consegnare il proprio tesserino di appartenenza, che gli viene restituito alla riconsegna. Guarda un po’, però, già che ci siamo, è stato messo anche un bel contributo di cinque euro a prestito. Con ricevuta fiscale, s’intende.