di Alessandro Tinti
A un quarto di secolo dalla destituzione del rassicurante duello con l’antagonista sovietico, quella di Barack Obama è la prima presidenza dal secondo dopoguerra ad aver deposto definitivamente i concetti strategici e i corollari operativi della Guerra Fredda. La simmetria bipolare tagliava con precisione i lembi del travaso ideologico, militare ed economico del paradigma americano, ordinando sullo scacchiere internazionale priorità e soluzioni di compromesso che, nella definizione di opposte ed esclusive aree di pertinenza, promuovevano una visione manichea del mondo pienamente collimante con l’eccezionalismo di tradizione calvinista che dalla fondazione del Nuovo Mondo ha sorretto il discorso politico statunitense. Nella solitudine di una transitoria e amara sovrabbondanza di potenza gli Stati Uniti hanno invece scoperto la dannosa vacuità di una politica globale pensata acriticamente quale estensione universale del modello occidentale e dunque incapace di accogliere le convulsioni di un ordine internazionale che, preda di una riconfigurazione regionale dei rapporti di forza, ha per contro rifiutato l’adesione alla norma uniformante prescritta da Washington. Il disordine ha così costretto la superpotenza a una mobilitazione permanente negli spazi esterni, alterando criteri e modalità d’azione dietro l’assunto teleologico dell’intervento necessario a tutela della stabilità dell’ordine internazionale – una vocazione da sceriffo mondiale che lungi dal riprodurre l’idealismo roosveltiano è progressivamente scaduta in esibizioni muscolari della supremazia bellica, spesso trasfigurate in atti di subordinazione delle periferie imperiali.In realtà, se mai lo sono stati al di fuori del proprio emisfero, gli Stati Uniti non sono oggi al centro di alcun impero. Nonostante l’evidenza di una proiezione di forza che eccede in misura e continuità i picchi conflittuali toccati tra il 1945 e il 1989, la superpotenza è stata sempre più attratta dal ripiegamento entro una zona d’influenza circoscritta allo scopo di trarre beneficio dalla riemersione delle grandi potenze asiatiche (Federazione Russa e Cina) e dal consolidamento di una trama di reciprocità egemoniche nel Pacifico sul modello della relazione transatlantica. L’adozione di quest’approccio minimalista – che nega risolutamente il teorema del contrasto alla crescita strutturale di eventuali competitor, applicato dalla presidenza di Bush Senior in poi secondo la lezione neoconservatrice dell’allora Sottosegretario alla Difesa Paul Wolfowitz – accusa e mostra il peso della pretesa condizione di indispensabilità, che ha gradualmente stirato la superba macchina da guerra statunitense nello sterile tamponamento degli epicentri di crisi ovunque conflagrati e al di sotto della quale avversari e alleati di Washington hanno riparato l’ambizione di consumare lentamente il basamento della preponderanza americana.
Tuttavia, entrambi i mandati di Obama sembrano sconfessare l’intento programmatico di rimuovere l’impronta bellica dal Medio Oriente; proposito su cui l’esecutivo democratico appuntò presso l’opinione pubblica nazionale e internazionale l’annuncio di una netta discontinuità con la precedente gestione Bush. Attualmente, le Forze Armate a stelle e strisce conducono operazioni militari in Siria, Iraq, Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia, secondo un profilo interventista che ha inevitabilmente diluito l’attenzione dell’esecutivo sul manifesto delle riforme interne cui Obama desiderava affidare la traccia luminosa del proprio corso politico. Piuttosto che rimarcare la tentazione irresistibile verso un uso smodato e unilaterale della potenza, le promesse incompiute e l’incerto decisionismo dell’amministrazione odierna sono al contrario da attribuirsi tanto alla pesante eredità della stagione simbolicamente dischiusa dalla prima Guerra del Golfo, quanto alle pressioni sistemiche che frenano il riflusso americano dalla regione mediorientale.
Questi due fattori, analiticamente distinti eppur intrecciati nel determinare la posizione statunitense, saranno affrontati nelle pagine che seguono, offrendo anzitutto una lettura realista del pressante coinvolgimento degli Stati Uniti nel denso teatro del Medio Oriente e analizzando poi nel dettaglio la missione Inherent Resolve diretta a sradicare il disegno egemonico dello Stato Islamico.
Scarica gratuitamente il Research Paper N°29/gennaio 2015: ”Traiettorie e strategie degli Stati Uniti in Medio Oriente“
Photo credits: U.S. Marine Corps photo by Cpl. Alejandro Pena
Potrebbero interessarti anche:
La sfida dell’IS e la strategia di Obama
L’ascesa dei security contractor nella politica mediorientale degli USA: verso…
Gli USA e il Medio Oriente, un’influenza in declino? Intervista…