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Tutta la verità sui buffet, sul club della tartina, e sulla mia ultima visita al Florian

Da Lollychant @rossellaneri
florian

Tutta la verità sui buffet, sul club della tartina, e sulla mia ultima visita al Florian

giu 2 • Quel sentore di pipì • 167 Views • Nessun commento

Con un’amica avevo elaborato una strategia di avvicinamento: da lontano si scorgeva la posizione migliore, che poi è quella vicina al vassoio più grande se il buffet è statico, o vicino al passaggio dei camerieri, se il buffet viene rifornito in continuazione. Poi, spargendo sorrisi a destra e a manca ci si avvicinava a piccoli passi. una volta guadagnata la posizione non la si lasciava per nessun motivo, nemmeno se una tartina ti andava di traverso e avevi urgente bisogno di bere. In quei casi si aspetta che la peristalsi dell’esofago faccia il suo dovere e dopo qualche minuto si ha la gola di nuovo libera.

Essere in due all’attacco del buffet è l’ideale: si dividono i sensi di colpa, e si può parlare con noncuranza mentre ci si ingozza. Tutti conosciamo il senso di vergogna davanti al buffet, quando ad ogni morso di salatino pensiamo a quello che gli altri stanno pensando di noi.

Il buffet mi fa tornare bambina: rimanere delusa o estasiata, cercare di accaparrarsi la maggior parte dei bocconi migliori, mangiare salato, poi dolce, poi ancora salato. Forse è una delle poche cose della vita con cui non mi piace tenere un approccio snob.

Il “club della tartina” lo chiamano, nelle redazioni e negli uffici stampa, sarebbero i collaboratori di varie testate, spesso in pensione, che tengono d’occhio le inaugurazioni, si passano parola, e si presentano puntuali, solo laddove vige il buffet. Un po’ parvenu lo ammetto, ma a me stanno simpatici. Per chi fa il giornalista in fondo il buffet è il pane quotidiano, e a una vernice è il buffet che fa la differenza tra una sala piena e una semi-vuota. Ho visto buffet biologici con posate in meter-bi, buffet indiani, emiliani, toscani, vegani, fatti in casa o dal miglior catering della zona, buffet luculliani e buffet minimalisti, gingerini della Lidl e prosecchi millesimati serviti con la stessa verve, e sempre, camerieri in livrea.

L’altra sera mi hanno invitata al Florian, si inaugurava la sala arredata dall’artista Omar Galliani, che mi sta simpatico per una ragione anagrafica: è nato nello stesso paesino in provincia di Reggio Emilia in cui è nata mia madre. Il sogno della Principessa Lyu Ji, si intitola e ha trasformato una saletta roccocò in una stanza di quelle che si vedono nei film di Kurosawa, con le porte scorrevoli in carta di riso e gli ideogrammi neri alle pareti. Quel che mi incuriosiva della serata è come sarebbe stato il buffet del Florian.

Io al Florian ci vado una volta all’anno, con mio marito, sotto le feste natalizie. Prendiamo sempre la stessa cosa: due Earl Gray. Te li servono nella teiera d’argento individuale, con la presina in mussola e il logo del caffè stampato su entrambi i lati. La teiera d’argento non è un solo un vezzo, permette all’acqua di rimanere molto calda molto a lungo. Le tazze invece son in porcellana, in modo che il tè possa raffreddare e decantare. Anche le bustine per l’infusione sono in mussola, e la miscela di tè nero al bergamotto è creata appositamente per il Florian, ed è una delle più chiare e profumate che abbia mai assaggiato. Il costo per i due tè è di 30 euro.

La sera dell’inaugurazione di Galliani al Florian il buffet non esisteva, esistevano invece molti camerieri in livrea che spargevano vassoi d’argento sui piccoli tavoli da caffè in radica e sui vassoi panini mignon con polpette di baccalà fritto e boule di vetro con riso venere e crema d’asparagi, entrambi gustosi, ma dimenticabili. C’erano anche altri finger food, ma il club della tartina era più agguerrito di me e io non ho più la mia fida compagna.

Nell’ultima sala c’era l’attrazione gastronomica, che mi è costata 20 buoni minuti di fila: un gamberone infilzato in uno spiedo di legno, fatto bollire 2 minuti in acqua temperata a 70 gradi sotto ai miei occhi, poi scolato e passato in una maionese all’acqua e poi ricoperto di una panure a base di pane di pasta madre, sminuzzato al coltello ed essiccato in forno. L’aspetto era quello di un gamberone fritto, ma il gusto preservava tutti i sapori, dal pesce alla cremosità della maio, al croccante sapido della panure, senza confonderne uno.

Un po’ delusa perché la mia cena era stata solo: 1 panino mignon, 1 boule di riso e 2 gamberoni, ho cercato il dessert. Nell’ordine sono comparsi dei bicchierini di cheescake al limone con cialda di cioccolato bianco su cui era stato usato un po’ troppo zucchero, e due tipi di macaron: i rosa avrebbero dovuto sapere di fragola, i verdi, suppongo, di pistacchio. Purtroppo erano stati tolti troppo poco tempo prima dal congelatore e il gusto era solo di zucchero con la ganache fredda e dura. La sera dopo, per consolarmi dalla delusione, mio padre me ne ha portati una dozzina per cena, dalla pasticceria vicino a casa. Alla fine ci vuole così poco a fare un buon macaron.

I camerieri erano visibilmente irritati dal “club della tartina” che in piena Biennale era a dir poco cospicuo e a cui in Laguna, non sono poi così abituati. Al Florian tornerò a Natale per il mio earl gray: certe cose esistono solo per quei momenti in cui vuoi sentirti snob.

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