Arrivo in ufficio alle 8.30 con calma: sono una che non si fa rubare volentieri la quiete casalinga del mattino. Mi alzo presto ma procedo piano attraverso le mie abitudini. Alle 8.31 mi avvertono che, nei piani alti, mi stanno cercando. Mi arrampico e mi comunicano che alle 9.00 ci sarà una riunione indetta al momento. Ricordo che, il pomeriggio precedente, negli stessi piani alti, avevamo fissato per me una riunione alle 8.40 per un altro argomento con altre persone. Essendo larga ma non ubiqua, decido, a mio rischio e pericolo, di partecipare alla prima, più operativa – dal titolo:” batti il ferro finchè è caldo” – e raggiungo la seconda solo alle 9.15. Il consesso termina alle 9.55. Torno in ufficio e trovo già ad aspettarmi i partecipanti ad un’altra riunione, a cadenza settimanale, che inizia alle 10.00 e finisce una mezz’ora dopo. Durante la riunione uno degli abitanti dei piani alti compare e mi comunica che, alle 11.00, io e parte delle persone con cui collaboro siamo invitate ad una riunione. Alle 10.45 riusciamo ad incastrare un altro incontro lampo, anch’esso a cadenza settimanale, che prosegue oltre le 11.00 perchè, nel frattempo, la chiamata delle 11.00 è stata spostata alle 11.30 per un’improvvisa urgenza. Alle 11.30 mi dicono che è stata ulteriormente rimandata alle 14.00. Nel frattempo riesco a finire un paio di cosine e a tornare a casa per un pranzo breve ma, soprattutto, per allontanarmi un po’ dalla giostra impazzita. Rientro nella mischia ma, alle 14.00, la riunione non si fa, e la si rimanderà per tutto il pomeriggio senza successo. Me ne inventano in ogni caso una alle 15.00, brevissima, in cui cercano di leggermi nel pensiero su una questione di risorse disumane e di capire se ci sono o ci faccio. Ho le mie strategie: sto di nuovo, per l’ennesima volta, tentando di ottenere per il mio gruppo un collaboratore prezioso sottraendolo ad un altro gruppo nel quale è sottoutilizzato in una mansione mortificante e pesante. Ci provo da tre anni: questo è l’attacco finale. Poi mi tolgo lo sfizio di indire anche io una riunione lampo piombando nell’ufficio di uno dei miei e chiudendo la porta per impedirgli di scappare. “Facciamo il punto” e vediamo di far fronte comune per il motivo di cui sopra. Finalmente, alle 16.30, il valzer delle riunioni sembra placarsi e per un’oretta e mezza riesco a lavorare. In ufficio non c’è l’aria condizionata e, essendo ricavato in una posizione rannicchiata e ritagliata nello stabilimento produttivo, soffre di pessima ventilazione. Ogni tentativo di richiedere un impianto di aria condizionata (tentativo mio: il capo precedente, ancora in essere, non lo ha mai ritenuto una priorità), a causa delle infinite lamentele del gruppo e di una certa insofferenza anche da parte mia, è sempre finito in richieste di rinvio. “Certo, quando rifaremo l’impianto”. Tra le braccia che si appiccicano e l’aria umida arrivo a sera e mi chiedo, dopo aver faticato senza troppo successo per trovare la concentrazione necessaria ad iniziare un lavoro che richiede riflessione, se una giornata così, seppur nella sua rarità, non sia sintomo di un brutto e pericoloso male, già visto in ogni altro posto in cui ho lavorato fino ad adesso: la perdita del controllo per troppo controllo.
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